Intervista a … Don Abbondio
Rubrica: «Le interviste impossibili» dello scrittore Pasquale Carelli
Don Abbondio
Non mi è facile intervistare don Abbondio perché, appena mi vede, si mette a correre come un forsennato per la stradina polverosa; e io dietro a gridargli: “Fermatevi, non abbiate timore, desidero soltanto farvi qualche domanda!…”
Quando finalmente si ferma, e non certo per le mie parole ma per esaurimento muscolare, se ne resta ansimante con le spalle addosso al tronco di un albero. Gli ripeto di non aver paura e mi siedo di fronte a lui, sul muretto: anch’io sono in debito di ossigeno. Per un poco riusciamo soltanto a guardarci l’un l’altro, poi è lui a parlare per primo, e mi fa: “Che altro vuole da me, il tuo padrone?… Non gli basta avermi già rovinato la reputazione con l’affare del matrimonio?”
Ora capisco: scappava perché mi aveva preso per un bravo. Lo rassicuro dicendogli che non è don Rodrigo il mio datore di lavoro. “E allora di chi sei?” mi chiede lui.
“Di nessuno,” gli rispondo con naturalezza.
“Tu dici di nessuno?…” mi fa lui sospettoso; poi mi scruta dall’alto in basso e mi domanda: “E com’è che non porti i calzoni larghi, non hai la retina in testa e non sei nemmeno armato?”
“Ma ve l’ho detto prima: non appartengo né a don Rodrigo né ad altri del suo stampo. Sono un uomo libero, io…”
“Va bene, voglio fidarmi,” dice il prete, “anche se non mi convinci quando affermi di essere un uomo libero. Io so che da quando il mondo è mondo, ognuno deve rendere conto a qualcun altro. Questa è una regola alla quale nessuno può sfuggire; solo gli uccelli del cielo sono liberi, come diceva… come diceva… in questo momento non mi ricordo chi lo diceva, ma sono sicuro che qualcuno lo diceva.”
Prendo al volo la sua traballante allusione francescana per venire al nocciolo dell’intervista: “Anche gli uomini possono diventare liberi come gli uccelli, basta che abbiano il coraggio di…”
“Il coraggio!” esclama Don Abbondio facendosi rosso dalla collera. “Tutti a parlare del coraggio che non ho!… è da una vita che mi sento dire questo fatto del coraggio!… E don Abbondio ha paura… e don Abbondio è pusillanime… e don Abbondio si spaventa per niente… e don Abbondio teme la sua stessa ombra… Scommetto che ormai se ne parla fino a Milano del mio mancato coraggio.”
“Per la verità, se ne parla in tutta Italia, e pure all’estero,” dico io.
“Vabbe’, adesso non esagerare, e non ci scherzare sopra,” mi fa lui, non potendo immaginare quanta strada abbia fatto la sua fama letteraria; poi comincia con il giustificarsi: “Dimmi tu cosa dovevo fare quando quei due mi portarono l’ordine di don Rodrigo?… Dovevo rifiutarmi di obbedire?… dovevo affrontarli fisicamente?… dovevo forse…?”
“Secondo me dovevate semplicemente denunciare il fatto.”
“Denunciare il fatto?…” ripete don Abbondio, scandendo le parole e sorridendo amaro. “E a chi l’avrei dovuto denunciare?…”
“Alle autorità, si capisce… le leggi certamente non permettono…”
“Le leggi?… quali leggi?… Ma tu l’hai letto bene il romanzo nel quale mi hanno messo?… hai letto dove si dice: …non già che non manchino le leggi, anzi diluviano, ma non servono ad altro che ad attestare l’impotenza de’ loro autori… Praticamente, in queste pagine dove mi è capitato di vivere, l’unica legge in vigore è quella di don Rodrigo, e non è scritta con la penna ma con le lame dei coltelli dei suoi uomini; ed è la legge che più funziona e che funzionerà sempre a questo mondo.”
“Vi capisco… però, se uno cala sempre le brache…”
“Pure tu con questo fatto delle brache!… Non basta quell’impicciona di Perpetua?… Per voi è facile parlare a questo modo; tanto, né lei né tu vi trovate nella mia situazione. Per chi sta al sicuro non ci vuole niente a dire ad un altro di opporsi alla prepotenza, di fare l’eroe.” Stringe il breviario con tutte e due le mani, sospira e aggiunge: “E poi, se vogliamo essere onesti, bisogna dire che non è mica colpa mia se difetto di coraggio.”
“E di chi sarebbe, la colpa?”
“O bella!” mi risponde lui. “Di chi vuol essere la colpa se non di chi mi ha creato in questo modo?… La responsabilità del mio fragile carattere è di Alessandro Manzoni; figurati che ad un certo punto lui mi fa dire chiaro e tondo che uno mica se lo può dare, il coraggio… Che vuoi di più? Se l’autore mi ha voluto foggiare in questo modo, io non posso fare altro che assecondare il suo volere. Invece, fra’ Cristoforo è stato creato con un altro carattere… e grazie che può permettersi certi atteggiamenti, lui!… ha la garanzia scritta del suo creatore!”
“A ben pensarci, siete un personaggio veramente sfortunato,” gli dico con sincerità.
“E ti dirò di più,” fa lui incoraggiato dalla mia comprensione. “Sapessi quanti ce ne sono, sia in questo romanzo che altrove, che non dimostrano la loro paura per il semplice fatto che hanno chi li protegge; e costoro appaiono addirittura degli intrepidi, soltanto perché si fanno forti del loro protettore. In fondo, è tutta gente peggiore di me; perché io, almeno, non ho scelto a priori qualcuno dal quale farmi proteggere, come si usa da queste parti, e non solo da queste parti.”
Perbacco, dico tra me, qui don Abbondio ha proprio ragione; e il pensiero mi corre diritto ai carrozzoni attuali e nostrani, ben lontani dal secolo del povero prete: sarà una suggestione, ma la stradina polverosa si popola all’improvviso di portaborse in doppiopetto, di procacciatori di voti, di fannulloni strapagati, di manutengoli in cravatta, di giornalisti e scrittori prezzolati, di reggitori di strascichi… Insomma, di una schiera di don Abbondio travestiti, di don Abbondio mancati.
“Perché ti guardi in giro?” mi chiede intimorito. “Non è che hai sentito qualche rumore sospetto?”
“No,” lo tranquillizzo io, “stavo solo pensando a certe persone…”
“A quali persone?…” fa lui sospettoso. “Persone del posto?…”
“No, voi non le conoscete, perché… perché non vivono in questo romanzo; diciamo che è gente del mio romanzo, un romanzo che sarà scritto fra qualche secolo, ma che un poco somiglia a questo vostro.”
“Hai visto?… avevo ragione io quando affermavo che a certe regole l’umanità non potrà mai sfuggire, né oggi né in futuro,” dice lui soddisfatto; poi s’incuriosisce e mi chiede: “E com’è questo romanzo tuo?… Scommetto che pure là dentro ci sono dei prepotenti che se la prendono con le persone bonarie e indifese.”
“Eh sì, a pensarci bene, i don Rodrigo non mancano nemmeno nel nostro romanzo e, a pensarci ancora meglio, ci sono pure i bravi, solo che non portano la retina in testa, i calzoni larghi, i coltelli alla cintola…”
“E le leggi?” chiede lui, quasi appassionandosi. “Scommetto che, pure nel romanzo che dici tu, le leggi…”
“Diluviano, ma non servono ad altro che ad attestare l’impotenza de’ loro autori,”lo anticipo io, pensando che se Manzoni vivesse ai nostri giorni, per quanto riguarda diluvi e impotenze di questo genere, troverebbe inesauribili fonti di ispirazione.
“E dimmi un’altra cosa,” chiede don Abbondio che sembra prenderci sempre più gusto. “Pure nel romanzo vostro arriva la peste?”
“Eh sì; non ci manca nemmeno quella,” gli rispondo, scoprendo delle analogie da brivido. “L’unica differenza è che voi ve la prendete con gli untori senza sapere che non c’entrano niente; mentre, nel nostro romanzo, gli untori, che c’entrano e come, se ne restano tranquilli, e magari ci sfottono pure.”
“E dimmi un’ultima cosa,” fa il prete scendendo sul personale. “Non è che pure nel romanzo tuo c’è qualche mio collega che passa i miei stessi guai per via di un matrimonio?”
“No, questo, per la verità, non succede mai; per il semplice fatto che, per quanto riguarda i matrimoni, i preti sono l’ultima cosa nel nostro romanzo; prima dei preti, vengono gli abiti, gli inviti, il pranzo al ristorante, la lista dei regali, le bomboniere, le fotografie, il filmino, il viaggio di nozze…”
“Ma che stai dicendo?” mi ferma don Abbondio che, naturalmente, non riesce più a seguirmi. “Non è che questo vostro romanzo è ambientato in un lazzaretto per malati di mente?… Dimmi solamente come va a finire, questo romanzo sgangherato nel quale vivi tu!”
“Voi non ci crederete, ma vi posso assicurare che nemmeno noi, che ci stiamo dentro, lo sappiamo come andrà a finire…”
“Ma allora siete pure una massa di ignoranti!” esclama don Abbondio con carattere, ritrovando una sorta di rivincita anche nei confronti della sua proverbiale paura.
“Non vi sbagliate,” gli rispondo alzandomi dal muretto per andare via. “Nel nostro romanzo, siamo proprio una massa di ignoranti… Figuratevi che ancora non sappiamo nemmeno chi è che lo sta scrivendo.”
Complimenti al Dott. Carelli……una metafora ben costruita.
Complimenti al dott. CARELLI . Sempre più dimostra di essere molto preparato, direi enciclopedico e molto bravo a proporci i suoi personaggi.