Un pennino d’oro per le vedove bianche
“I luoghi, i personaggi, la storia” da Cronista di Strada a cura di Mario Fortunato
Reportage tratto dal libro di Mario Fortunato “Terra di periferia” – Memorie da un Angolo del Sud – Musiche e immagini di Francesco Sampogna.
Un pennino d’oro per le vedove bianche
L’emigrazione degli anni Cinquanta riporta alla mente lo scrivano, un antico mestiere scomparso quando si è deciso di porre fine all’analfabetismo, che a quei tempi raggiungeva percentuali altissime, soprattutto, nelle classi più povere. A Napoli lo scrivano usciva in piazza con il suo baldacchino (tavolo, carta, penna e calamaio), per rendere i suoi servizi ai passanti, bisognosi di farsi scrivere una lettera a un congiunto o un documento di una certa importanza. Bella grafia e quinta elementare erano più che sufficienti per essere un buon copista, e guadagnarsi da vivere.
Veri e propri pennini d’oro erano, invece, i ragazzini che prestavano la loro opera alle mamme, che scrivevano i figli al di là dell’Oceano. Le donne dettavano e i piccoli scrivani cercavano di tradurre, dal dialetto cilentano in un italiano comprensibile, al destinatario che della lingua nostrana capiva ben poco, e senza travisare il pensiero delle anziane.
Lettere che venivano dettate con passione, dolcezza e veemenza, come se il ricevente fosse a pochi passi.
Attraverso le parole si cercava di esprimere con forza, e quasi con rabbia, il dolore della lontananza, il bisogno di affetto, la necessità del contatto fisico: della vicinanza.
Sì raccontava di tutto, partendo dalla frase: “Caro marito, caro figlio, noi stiamo bene, così speriamo anche di te“. Si continuava con la salute dei parenti più stretti, dettagliando su eventuali problemi sofferti da qualcuno della famiglia; poi, si passava alle nascite e ai morti che c’erano stati nel paese. Non di rado, alle parole seguivano le lacrime, che coinvolgevano anche i piccolo scribacchini, soprattutto, quando venivano raccontati fatti molto tristi, che toccavano il cuore.
Raccogliere quelle lettere sarebbe un vero e proprio tesoro letterario, attraverso il quale si potrebbe raccontare con sentimenti autentici i sacrifici dell’emigrazione.
Le lettere, oltre a costituire un filo diretto tra l’emigrato e i parenti, rappresentavano sicuramente vere e proprie sedute terapeutiche, per le mamme che scrivevano ai figli, e per le ‘vedove bianche, che cercavano di mantenere in vita il lume di speranza che li teneva ancora unite ai mariti, partiti da anni in cerca di fortuna … e, più delle volte, mai più tornati.