Grande Lucania, occasione mancata
di Pasquale Scaldaferri
Quando nel 2006, una schiera di sani visionari promosse l’ambizioso ed esaltante progetto della “Grande Lucania”, sapientemente elaborato dal procuratore della Corte dei Conti, Raffaele de Dominicis -cilentano doc- con il supporto di giuristi e studiosi, di cui facevano parte tra le altre personalità il cassazionista, Franco Maldonato, il già dirigente amministrativo del Polo liceale di Sapri, Luciano Ignacchiti, l’imprenditore turistico, Nicola Rosa e soprattutto il coraggioso, libero e indomito popolo del Cilento, golfo di Policastro e Vallo di Diano, le maggiori resistenze furono registrate proprio nell’ultima enclave della provincia salernitana.
Partendo da Vallo della Lucania (nomen omen), fino alla propaggine estrema del territorio ai confini con Acquafredda di Maratea, i penosi comportamenti di una classe dirigente succuba del bolscevico salernitano, che godeva e continua a godere anche delle orgiastiche attenzioni di alcune paranoiche strutture di destra, bollarono tout court l’avveniristico movimento culturale e sociale del magistrato de Dominicis.
Anzi ci fu chi, come l’allora vicepresidente cooptato della Regione Campania e braccio destro di Bassolino, dal suo scranno di Palazzo Santa Lucia proferì un’espressione infelice e maldestra, paventando che saremmo passati “dal castello al vascio”.
Di quale fantomatico castello parlasse non fu mai chiarito, ma le persone serie, laboriose, pervicacemente legate all’amata terra, scoprirono sulla propria pelle quanto fosse devastante la politica-politicante locale, provinciale e regionale al punto da sprofondare, stavolta sì, in un putrido e nauseabondo “vascio”.
In qualità di portavoce nazionale della “Grande Lucania”, seguii tutti gli appuntamenti che l’ideologo de Dominicis e il segretario generale Ignacchiti organizzarono nell’entroterra cilentano o lungo la fascia costiera.
Incontri, conferenze, forum, giornate di studio che videro la partecipazione di una moltitudine di cittadini, pronti a riappropriarsi della propria identità.
Insomma, uscire dal limbo di una provincia di Salerno sterminata e onnivora, che diffondeva nell’area della Magna Grecia solo briciole e povertà, altresì spezzare definitivamente le opprimenti catene di una regione-matrigna.
Pur gettando sempre il cuore oltre l’ostacolo, la “Grande Lucania” fu stroncata proprio a ridosso del traguardo, in cui il popolo sovrano avrebbe trionfato.
Il referendum di separazione dalla Campania e aggregazione alla Basilicata non fu mai indetto, poiché i parlamentini cittadini -ad eccezione di rarissimi esempi di sindaci indipendenti e consiglieri comunali onesti e competenti-preferirono soggiacere ai diktat del governo centrale votato al “napolicentrismo”, piuttosto che rispettare la Costituzione e far scegliere liberamente l’elettorato.
Una scelta antidemocratica che l’intero territorio continuerà a pagare senza soluzione di continuità. Ma quella opzione sciagurata e scellerata di non deliberare per la consultazione popolare, non potrà mai sopprimere l’ Idea che una squadra di persone, scevra di sofismi e pregiudizi, partorì all’alba del XXI secolo e che il coacervo di portaborse, salamelecchi, replicanti, parvenu, tromboni sfiatati, pifferai impenitenti, intese artatamente soffocare per perseverare nelle consuete piroette con il cappello in mano, come fece 200 anni prima il massone Giuseppe Bonaparte, fondatore del Grande Oriente partenopeo, che con un tratto di penna d’oca cancellò quelle terre dalla Lucania per annetterle al Regno di Napoli.