8 Settembre 2024

di Pasquale Martucci

Alcune riflessioni sul Festival della Sociologia (Narni, 6-8 ottobre 2023) dal titolo: “Le maschere, il volto e la costruzione dell’altro”.


La tre giorni di lavori del Festival della Sociologia di Narni ha inteso porre in essere il problema del rapporto tra la sociologia e la precarietà sociale che contraddistingue le nostre vite, partendo dal tema delle maschere quotidiane indossate per nascondere e al tempo stesso rivelare la condizione umana diversificata e complessa.

Il Rapporto Eurispes “La nuova normalità. Elementi di una nuova precarietà strutturale e diffusa”, 2023, con la collaborazione con la Rete Europea sulla Incertezza, Precarietà, Disuguaglianza Sociale – SUPI, ormai delinea una condizione strutturale del processo evolutivo della precarietà, diventato un fatto sociale, culturale ed esistenziale, che determina conseguenze nella vita delle persone, delle comunità, della politica, delle istituzioni e della stessa democrazia.

Partendo da ciò il Festival ha inteso porre la sociologia attuale nel rapporto tra analisi e rilievi critici, individuando due linee di tendenza: a) la sociologia applicata ai vari fenomeni attuali, precari e frammentari; b) l’approccio teorico e la lezione dei classici, che ancora costituiscono le fondamenta per avviare qualsiasi analisi allo studio dei problemi.

Il primo aspetto riguarda gli interventi disciplinari, nel senso di legami tra i vari ambiti sociali che presentano elementi di criticità: disagi, devianze, marginalità, sicurezza, lavoro, rapporti tra generi, cura delle persone, per giungere ad informazione, globalizzazione, digitalizzazione. Insomma, le tematiche attuali che tuttavia non possono essere affrontate entro un contesto di parcellizzazione e specialismi, che comporterebbe la perdita della visione d’insieme e del senso dello stesso lavoro del sociologo.

Di conseguenza, è la seconda direzione che mi induce a fare alcune considerazioni: quella del rapporto tra teoria e metodologie d’intervento, che caratterizzano certamente in maniera più compiuta il ruolo della sociologia nella dimensione di una società precarizzata e complessa. In essa si sviluppa il senso di vulnerabilità sociale, ovvero quella ferita che conduce alla consapevolezza di una maschera provvisoria, precaria, legata al rischio. Ci si muove tra fragilità e autonomia in una tensione continua che andrebbe risolta in un rafforzamento di una maggiore responsabilità della cura dell’altro e della relazione come costruzione (Ana Maria Marcos Del Cano, “Tensione tra autonomia e fragilità”).

Credo che a questo punto, si possa porre la questione: quale società?, e di conseguenza: quale sociologia?

Parto dalle considerazioni di Paolo De Nardis, Enrico Giovannini e Sonia Stefanizzi sul tema di ciò che potremmo identificare con “utopia sostenibile”, la strada da percorrere per una collocazione nell’ambito di una società globalizzata, neoliberistica e precarizzata. È il problema delle diseguaglianze sociali che si affidano solo a parametri economici trascurando la questione delle questioni, cioè quel “benessere sociale” che contiene tutti gli aspetti riguardanti la qualità della vita, la sicurezza urbana, anche l’idea stessa di città e urbanizzazione degli spazi sociali (unanimi sono stati gli interventi specifici in tal senso nell’ambito degli spazi del dibattito), che comportano pericolo ed acquisizione della consapevolezza di vivere nel rischio sociale e nell’insicurezza. Giovannini evoca il concetto baumaniano di retrotopia e riconduce all’idea di ri-generazione (urbana) e non ri-costruzione: il lavoro si fa con le comunità e con la popolazione, il coinvolgimento di varie intelligenze e le conseguenti forme di partecipazione. La Stefanizzi ha rilevato l’importanza della non contrapposizione ma di spazi aperti di confronto e progettazione. De Nardis ha insistito sulla rabbia consapevole più che sul conflitto, in cui paiono essere coinvolti soprattutto i poveri che agiscono nel “palcoscenico dello scarto”.

La parola evocata è sostenibilità, che deve essere declinata nell’evoluzione culturale (educazione e istruzione) e nell’idea di partecipazione democratica e relazionale dei cittadini.

Durante gli spazi di discussione, e qui passo agli aspetti più propriamente teorici e metodologici, si è molto insistito sul ruolo di classici del pensiero, che nella visione di Gian Primo Cella andranno ricondotti entro una cornice moderna, come ha fatto Pizzorno nel suo modo di teorizzazione, con riferimento al volume: “La maschera dei classici”. In sostanza, l’approccio interpretativo va re-interpretato, valutando le differenti prospettive della società attuale che ancora deve continuare a fare i conti con le tesi dei maestri del pensiero (Hobbes, Weber, Durkheim, Pareto, Mosca, Gramsci, Dahrendorf, ecc…). La questione aperta è il lavoro da compiere sulla teoria sociologica, che a tratti predilige l’indagine senza inserirsi in più ampio, e da costruire, dibattito. Si tratta al contrario di recuperare un dialogo intergenerazionale che non si affidi alla sociologia disciplinare, ma si indirizzi ad analisi più compiute e valorizzi l’interrogazione dei classici, anzi il continuo re-interrogare, in base ai problemi di oggi.

A questo punto diventa essenziale chiederci cosa sia oggi la sociologia. Essa si differenzierebbe dalla cultura umanistica e da quella scientifica, trovando una sintesi ed interrogandosi su come sistematizzare il pensiero nella società della precarizzazione. Il re-interrogarsi, come sosteneva Pizzorno, potrebbe portare a trovare un modello per verificare se nella nostra società le idee sociologiche servono, soprattutto se insite in un rapporto non di contrapposizione ma di interscambio, un approccio che richiederebbe una “terza cultura”, quella delle scienze sociali. C’è un necessario confronto e dialogo per non condurre la sociologia all’irrilevanza, affidandosi agli specialisti di altre discipline.

Riccardo Emilio Chesta rileva, nella presentazione dei saggi di Pizzorno, l’importanza di riflessioni strategiche, che indicherebbero il procedere sia nell’analisi che nel metodo: una conoscenza che si sviluppa sul tutto avendo il senso dell’incompiutezza ed al tempo stesso sapendo di dover operare in una società in continuo cambiamento. Nulla infatti è concluso, è tutto da mettere in discussione.

In questo Festival non poteva non essere rilevato il saggio di Pizzorno: “Sulla maschera”, degli inizi degli anni cinquanta del novecento, soprattutto nella sottolineatura non del nascondimento ma nel rivelamento. Il sociologo si interrogò sui modi in cui simboli, rituali, forme artistiche e oggetti quotidiani mediano tra ruolo e persona, tra esperienze intime e loro rappresentazione pubblica. È il rapporto che si sviluppa tra chi indossa una maschera e chi guarda, attivando dinamiche relazionali intorno alle emozioni e ai ruoli che le persone assumono, che siano spettatori o attori. In quel saggio, Pizzorno sostiene che la persona nascosta interrompe la propria identità, realizzando un vuoto sotto di sé, evitando espressioni e comunicazioni con l’altro. Ma, nonostante ciò, cerca comunque una nuova identità che si produce negli sguardi degli altri; una presenza che tra gli altri riconosce la propria presenza: il nascondere è un rivelare a coloro che guardano, un attestare la propria presenza sociale.

In sostanza, sarebbero da privilegiare autori classici che hanno espresso i loro scritti in un “auditorio” differente da quello del contesto in cui sono oggi letti: sono i fondamenti di un pensiero che va individuato e studiato, lavorando scomponendo e ricomponendo idee, per rapportarsi con il presente in proiezione futura partendo dal confronto con i loro insegnamenti.

Un rilevante lascito scientifico è quello di Franco Crespi (il contributo offerto è stato sui concetti di “Sociologia ed esistenza”, con Carmen Leccardi, Paolo Jedlowski, Roberto Segatori, Ambrogio Santambrogio). L’idea di Crespi è di individuare una curiosità interdisciplinare, un modo di essere intellettuali, dunque un rapporto stretto con l’esistenza, tra filosofia e sociologia. La prima porta certamente idee che permettono di giungere all’agire sociale. Per fare un esempio, Segatori riporta il concetto di identità negata, quella da parte di un soggetto che afferma il suo mondo su quello dell’altro; rileva che Crespi offre spunti importanti per riflettere sulla dimensione dell’azione sociale che si riconduce alla determinazione concreta, il senso sociale dell’agire.

Crespi lascia un programma di lavoro che possiamo individuare in tre direttrici di marcia: a) la sociologia della cultura (mediazione simbolica); b) la teoria dell’agire sociale (con ricerca dell’unità tra teoria e pratica); c) la teoria del potere (potere interconnesso con capacità di gestirlo soggettivamente). In tutto ciò, c’è certamente il confronto con la dimensione temporale, in cui si sviluppa un tempo soggettivo ed uno oggettivo (fenomenologia di Schütz). Il tempo è una chiave analitica, non sempre esplicitata, per condurre alle forme di convivenza sociali attraverso l’idea di inter (intersoggettività) in cui la mediazione simbolica costituisce aspetti di oggettivazione del sapere. Sono necessarie forme di riconoscimento reciproco, dunque la costruzione con l’altro, con le culture altre, che passa attraverso la nostra comune umanità e trovi un tempo globale nuovo. È l’autocoscienza delle sorti del pianeta, inseparabili dalla nostra comune identità, da proiettare verso le generazioni future (Leccardi). Anche Jedlowski insiste sull’esistenza simbolica di Crespi. Esistenza è stare fuori, ma certamente essere situati e sporgersi: si è collocati in uno spazio radicato, senza però esserne confinato, perché l’essere umano cerca sempre di sporgersi per trovare nuovi modi di vita, nuovi mondi.

Questa è una delle indicazioni importanti per la sociologia, un lascito di una teoria sociale con implicazioni pratiche: trarre idea da questa esistenza, darsi agli altri e imparare a convivere con la non certezza, assumendo anche distanze da noi stessi perché non possiamo essere esonerati dal rischio di esistere.

Per tornare ad altri spunti del Festival, mi pare di individuare che occorre fare i conti con il mondo globale, che produce altri rapporti e relazioni, crisi sociali, ridefinizioni e cambiamento, come è attestato dai fenomeni complessi della società contemporanea dove pare prevalere la crisi nelle stesse dinamiche relazionali (“Ripensare l’altro alla luce delle crisi globali”, confronto tra Alessandra Sannella, Mariella Nocenzi, Rosella Muroni).

È una crisi globale legata allo stesso cambiamento e trasformazione della società, in cui il sociologo del territorio sarebbe certamente un valore aggiunto. È sognare il futuro ciò che manca nelle società attuali (Sannella), mantenendo stretto un legame ambiente/uomo e realizzando un fenomeno di connessione: il problema non è il pianeta che si salva da solo, ma la possibilità di sopravvivenza della nostra specie. Una critica alla tecnologia è espressa da Nocenzi, che insiste sul suo uso controllato da un potere (economico privato) senza dare l’opportunità di scegliere, un potere che non è responsabilità. Nella società dell’incertezza e del cambiamento occorre non lasciare indietro nessuno, come pure non insistere sul termine transizione, che per Rossella Muroni indica il perdere tempo, non fare niente: occorrerebbe piuttosto parlare di conversione verso il cambiamento.

Sul globale si concentra l’attenzione di uno spazio AIS: “La globalizzazione e la sua ombra. L’Italia e l’Europa di fronte alla crisi strutturale del mondo globale”. In una società dell’accelerazione occorre connettere: a) tecnologia; b) mutamento sociale; c) ricerca empirica, per riformare la vita sociale.

Il tema è interessante, soprattutto se la crisi è rapportata ad un’idea congiunturale oppure strutturale, ere che si rinnovano oppure rotture brusche (Emanuela Susca). C’è un divario tra una base sociale (gente comune) e l’élite che propone soluzioni affidate al tempo ciclico.

Fatto è che c’è un rapporto tra globalizzazione e radicalizzazione, ovvero polarizzazione di conflitti tra un fenomeno che avrebbe dovuto unire soprattutto gli scambi ed invece produce implosioni, e dunque tensioni e conflitti multiculturali (Giorgia Mavica). È una relazione complessa e multidimensionale che abbraccia diverse prospettive: vivere nella radicalizzazione significa anche il limite di una globalizzazione che ha prodotto la società del rischio e che tuttavia, almeno nella dimensione attuale, tarda ad essere gestita perché manca la massimizzazione dei vantaggi e la mitigazione delle ombre. Se quest’ultime sono la deumanizzazione, la perdita del capitale umano, lo sviluppo centrato solo sulla tecnologia che esclude l’umano dal controllo del circuito tecnologico, il rischio è di dover fare a meno un giorno dell’uomo (Romina Gurashi). Eppure anche i pessimisti della globalizzazione hanno considerato gli indubbi vantaggi in termini di evoluzione sociale: sembra che stiamo percorrendo una deglobalizzazione, che tuttavia lascia ancora di più nell’incertezza ed almeno, nella fase attuale, pare del tutto lontana dall’essere analizzata.

Una indicazione potrebbe essere quella di modificare il paradigma oggi esistente, quello neoliberista per intenderci, mettendo al centro coinvolgimento, sostenibilità costruzione di un processo che faccia indossare sempre meno maschere ed entrare in rapporto con l’altro in una dimensione relazionale e legata agli interscambi.

A proposito di maschere quotidiane, non è da sottovalutare, come suggerisce questo Festival, il contributo dell’arte, che “è profetica, oltrepassa il visibile e il leggibile, cambia il segno continuamente, sposta lo sguardo che l’artista dovrebbe offrire, in un percorso di trasfigurazione, per far perdere la vita ritrovando se stessi e, dunque, l’Altro” (Raffaele Federici). Del resto, l’artista è qualcuno che è dentro e fuori al tempo stesso, che lavora in uno spazio borderline, e solo così può cogliere e mostrare quel margine sociale che continua sempre più a divaricarsi e polarizzarsi, come accade alle nostre attuali società.

I percorsi d’arte contemporanea offerti sono un dialogo continuo tra maschere e volto, il legame tra sociologia ed espressioni creative. In questi primi vent’anni del nuovo secolo, l’arte fabbrica nuovi miti con un continuo flusso di immagini, che sembrano aver soppiantato anche la mitologia di un tempo.

In conclusione, sembra importante rimarcare come il sociologo possa dare un contributo importante, considerando tutte le forme espressive e le istanze che emergono in una società complessa, partendo certamente dalle idee dei classici che ancora devono essere in maniera compiuta re-interpretati e ri-attualizzati.

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