23 Novembre 2024

Crisi, incertezza, partecipazione

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di Pasquale Martucci

Studi ed analisi ormai consolidate rilevano che viviamo una condizione caratterizzata dall’incertezza, ovvero dall’in-certus, non certo, insufficiente, non del tutto fondato, instabile, che lascia spazio al rischio. “L’incertezza è l’habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane”, ha sostenuto Zygmunt Bauman: si tratta di un orizzonte che si allontana ogni volta che cerchiamo di afferrarlo. (Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, 2014)

Dunque, l’incertezza è una costante della vita umana: c’è stata la sua affermazione negli ultimi cinquant’anni, quando ci siamo resi conto di essere dipendenti dai casi della natura e dagli eventi della storia. A partire dalla seconda metà del XX secolo, è come se tutto convergesse verso la precarietà: dalla conoscenza del cosmo all’analisi dell’io individuale, dalle strutture elementari della materia alla dinamica delle società complesse.

Uno dei problemi che ha determinato la condizione di incertezza è proprio il fenomeno della globalizzazione. Ulrich Beck ha offerto alcune definizioni importanti: la globalità riconduce ad un mondo tecnologicamente interconnesso, attraversato soprattutto da flussi commerciali e finanziari; con globalizzazione si intende il processo attivo di interconnessione in continuo avanzamento, con forme inedite da definire; infine, il globalismo è l’azione di interpretazione e di costruzione di una ideologica delle trasformazioni in atto. (U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carrocci, 2013)

Gli studi più importanti di Beck sono legati alla società del rischio, che condurrebbe all’insicurezza e alla casualità. Il rischio è la possibilità o la probabilità che si verifichino eventi indesiderati o imprevisti che possano avere conseguenze negative o dannose: la società potrebbe essere fuori controllo, uno spazio vitale in cui scompare ogni certezza. La novità oggi è rappresentata da una diversa percezione del rischio, avendo l’accortezza di esercitare adeguate modalità di controllo sia degli individui che delle istituzioni. Le insicurezze e i rischi sono attribuite al progresso e alla modernizzazione, che determinerebbero fenomeni come il cambiamento climatico, il terrorismo e i disastri ecologici, che appaiono sempre di più la conseguenza dell’agire umano. È il paradosso della cultura post-moderna dove le istituzioni che avevano promesso più sicurezza hanno creato l’opposto, facendo sorgere la consapevolezza che il mondo in cui viviamo sia fuori controllo e che i rischi fronteggiati siano presenti ovunque. È la nuova forma di capitalismo, privo di classi sociali, che comporta l’isolamento del soggetto e la de-standardizzazione del lavoro: si assiste ad una mobilità delle carriere e dei rapporti di lavoro con professionisti che detengono tutte le responsabilità del proprio percorso personale. (Beck)

Luciano Gallino ha spiegato la condizione di incertezza individuando la crisi della civiltà-mondo, quello capitalistico, definito finanzcapitalismo. La centralità è affidata al mercato finanziario, con un ruolo rilevante delle banche che determinano le scelte degli stessi Stati. Questa situazione ha prodotto diseguaglianze di reddito e ricchezza, riconducibili all’egemonia delle dottrine economiche, politiche e sociali del neoliberismo, con la subordinazione al calcolo economico di ogni dimensione dell’esistenza. Oggi, nelle comunità, il luogo fisico e simbolico dove si riproducono le persone e le loro forme di convivenza, sono state immesse forme di cultura e modi di agire proprie del sistema economico, affidandosi al calcolo dei costi e benefici cui deve sottostare ogni azione umana. Tutto ciò ha creato uno squilibrio tra le potenzialità tecnologiche ed economiche e le effettive condizioni di vita delle popolazioni, con l’idea che tutto debba essere destinato alla produzione, non rendendosi conto che lo sviluppo senza fine non è sostenibile. Gallino sostiene che ormai la civiltà-mondo che ha dissolto i confini tra economia, politica e cultura produce “un costume decomposto (corrupt)”, in cui gli individui hanno introiettato “il vangelo del consumo in luogo delle regole della democrazia”. Ciò produce cittadini che credono che la libertà politica dipenda dalla possibilità di scegliere negli scaffali del supermercato. (L. Gallino, Una civiltà in crisi, Einaudi, 2013).

Il lavoro è stato posto al centro, ma è il lavoro di un capitalismo flessibile in cui tutto è sottoposto alla logica dell’impazienza, tutto è affidato al breve termine, le stesse istituzioni appaiono frammentate e continuamente ridisegnate. Richard Sennett ha chiamato tutto ciò “corrosione del carattere”, affidato a flessibilità e a rapida circolazione del capitale. Rivolgendosi ai temi della teoria della socialità e del lavoro, dei legami sociali nei contesti urbani, degli effetti sull’individuo della convivenza nel mondo moderno urbanizzato, la sua critica è indirizzata alla logica improntata su competizione e individualismo, in cui flessibilità, mobilità, rischio sono le nuove categorie di vita contemporanee. Finisce l’assistenzialismo, la burocrazia si riduce, l’economia si fa più dinamica e spregiudicata, e la vita personale ne risente. Non esiste più la forza del vecchio capitalismo; ora valgono incertezza, perenne innovazione e maggiori, seppur diverse, forme di potere e controllo, e soprattutto diseguaglianze e povertà. Si manifesta una sempre crescente distorsione del carattere, i cui requisiti di stabilità, durata e permanenza sono in contrasto con la dinamicità, frammentarietà e mutevolezza del capitalismo flessibile. (R. Sennett, L’uomo flessibile, Feltrinelli, 2016)

La crisi si è acuita in relazione all’ambiente e alla sostenibilità di questo modello di sviluppo, perché occorrerebbe un secondo pianeta per poter soddisfare i consumi di risorse naturali. Tutto ciò fa pensare che la civiltà-mondo sia entrata in crisi, proprio a causa di quel finanzcapitalismo che ha inteso affidare ad organizzazioni l’uso di “masse di esseri umani come componenti o servo-unità (Mumford)”. Il capitale ha il potere di decidere cosa produrre, di controllare chi ha diritto ad un lavoro, di stabilire come organizzare il lavoro, di trovare i prezzi degli alimenti ed a chi destinarli, di decidere quali malattie curare e a chi destinare le cure. Si persegue solo l’accumulazione di denaro con lo scopo di realizzare altro denaro. Questo sistema è entrato in crisi e la reazione è stata la stretta sul sociale, tagli ai settori essenziali quali: sanità, istruzione e servizi pubblici. Tutto ciò ha prodotto conseguenze in termini di previdenza, occupazione, reddito disponibile per le famiglie. (Gallino)

Occorre pensare, scrive Gallino, ad una svolta radicale del modo di organizzare e far funzionare l’economia, anche se i governi mondiali sono restii a discutere l’attuale modello di crescita. La partecipazione democratica e i movimenti di protesta potrebbero far invertire la rotta e cercare di sottoporre il capitalismo ad un “ragionevole controllo democratico”, portando la finanza al servizio dell’ecosistema e non degli interessi di pochi. È necessario individuare nuovi soggetti che dovrebbero trasformare i caratteri deleteri del capitalismo, organizzando la società volta alla giustizia sociale, all’uguaglianza dei diritti, alla solidarietà, ad una politica economica che affronti la crisi ecologica. Una svolta nel pensiero economico dovrebbe far acquisire un ruolo importante a gruppi ed associazioni: insomma si deve puntare alla partecipazione di cittadini che si battono per interessi comuni, comunitari.

Il cambiamento può essere affidato al pensiero critico, che riprogetti la vita sociale e partecipativa e determini rappresentazioni sociali indirizzate agli interessi generali e non solo ai calcoli economici dei pochi che dominano la scena mondiale.

Oggi ci rendiamo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste: a livello di esperienza individuale sono cambiate soprattutto le nostre preoccupazioni e le nostre ansie rispetto all’incapacità di far fronte alle minacce, ed allora l’incertezza appare insuperabile. Tuttavia, tutto ciò non significa non attivarsi per ricercare e trovare tutte le rassicurazioni per vivere in maniera più adeguata l’esistenza. Per fare ciò occorre però una critica radicale, un progetto democratico, un impegno civile ed etico; trovare nella società le possibilità di affrontare le paure e le preoccupazioni, confrontandosi con l’incertezza.

Il Nuovo Rapporto 2023 su: “Gli italiani e lo Stato” (LaPolis – Laboratorio di Studi Politici e Sociali, Università di Urbino e Demos e Pi, XXVI edizione, pubblicato il 31.12.2023), evidenzia proprio la centralità dell’incertezza sul futuro del nostro Paese. È certificata la sfiducia verso le istituzioni, sanità soprattutto; insoddisfazione anche verso la democrazia, nonostante la scelta democratica sia di gran lunga preferibile su altre forme di gestione del potere pubblico e del governo del Paese. Le critiche più rilevanti sono verso gli attori del sistema istituzionale, anche regioni e comuni, salvaguardando il ruolo del Presidente della Repubblica.

Eppure, il Rapporto rileva il bisogno di comunità e partecipazione, con al centro le relazioni sociali e personali per affrontare un futuro incerto, avendo la consapevolezza, come afferma Ilvo Diamanti, che “l’unica certezza sia l’incertezza”.

L’importanza della partecipazione attiva alla vita della comunità, e un plauso a coloro che si sono particolarmente distinti per il contributo civile e democratico, è anche il senso del messaggio di fine anno del presidente Mattarella, che ha sottolineato come senza partecipazione la democrazia diventa più debole.

Dunque, l’elemento su cui puntare nel nostro prossimo futuro è quello della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, un ritorno all’agorà: il crollo della soddisfazione nelle istituzioni fa emergere un maggiore impegno verso l’attivismo politico, sociale e civile.

È tornata la voglia dei cittadini di essere protagonisti nella comunità, sottolinea il Rapporto Demos e Pi, avendo oggi una differente consapevolezza delle questioni etiche, ecologiche e politiche. C’è una diversa responsabilità verso la dimensione comunitaria che si traduce in un diffuso volontariato, come rilevano all’unisono i vari istituti di ricerche sociali.

Si tratta di conquistare lo spazio di una cittadinanza attiva, con attenzione al consumo critico, responsabile, integrato nella comunità e attento alle questioni di interesse collettivo, dove il consumo è da intendere su basi differenti rispetto alla globalizzazione dei mercati e all’imposizione di scelte provenienti dall’alto.

Se questa tendenza sarà confermata nel prossimo futuro, possiamo augurarci un maggior impegno di attori sociali, soggetti collettivi, che si confrontino con il territorio di appartenenza, ne valorizzino le risorse e si sentano inclusi nella vita di una comunità.

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