La serie TV polacca “Infamia”, ambientata in una comunità gitana, riprende un concetto ormai desueto ma che evidenzia il rapporto tradizione/modernità e la resistenza al cambiamento
di Pasquale Martucci
Quando si parla di infamia ci si riferisce alla riduzione dell’onore del cittadino, per cui chi ne è colpito è considerato incapace nell’ambito della società di appartenenza. L’infame è una persona che ha commesso azioni vergognose o conduce vita notoriamente riprovevole, o chi ha subìto pene che portano come conseguenza una diminuzione del suo onore.
Nel diritto romano c’erano alcuni possibili effetti per colui che si era macchiato d’infamia: a) l’esclusione dalle cariche pubbliche; b) la perdita della facoltà di essere rappresentativi; c) in senso più estensivo, l’incapacità di essere cittadino con tutti i diritti in virtù della ridotta stima di cui gode nella comunità.
Se un tempo dunque esisteva il reato di infamia, oggi con questo termine si indica un giudizio morale in riferimento ad una condotta disonorevole, cui è associato il biasimo pubblico e la vergogna: in alcune realtà (culture tradizionali molto coese e poco disposte ai cambiamenti) chi si macchia di infamia e la stessa sua famiglia, additati al pubblico disprezzo, sono posti ai margini del gruppo/comunità.
Questo termine improvvisamente acquisisce attualità se si considera la serie televisiva drammatica polacca, “Infamia”, in cui non ci sono scelte se non quelle di adeguarsi ai dettami della comunità, che nel caso specifico è quella rom. Sullo sfondo agiscono adolescenti che vogliono stravolgere le regole della famiglia patriarcale, con desideri di indipendenza, di libertà e di innovazione, che si scontrano con i dogmi e le tradizioni della civiltà gitana e con il radicato razzismo presente in Polonia.
I genitori della protagonista diciassettenne, che ascolta e si dedica alla musica rap rifiutando convenzioni e costumi radicati, per saldare un debito di gioco del padre, la promettono in sposa a un ragazzo che nemmeno conosce. Da qui parte un racconto che percorre e definisce regole, imposizioni e il disconoscimento in caso di non accettazione. L’azione si svolge in una sorta di microcosmo in cui sfuggire diventa difficile e disubbidire significa andare incontro all’infamia,intesa come disonore e vergogna che macchiano in maniera indelebile ogni vita.
La comunità gitana rappresentata è tenuta insieme da un forte senso dell’onore, che riecheggia prepotente e si configura come uno dei valori fondamentali su cui si regge ogni equilibrio. Sfuggire a precise dinamiche è impossibile, specie per le donne che sono costrette a vivere in famiglia, accettare ciò che viene deciso dal patriarca: eppure la giovane protagonista dall’inizio alla fine non fa che violare ogni divieto. Invano si cerca di ricondurla all’obbedienza e al rispetto dei valori tradizionali e degli interessi della famiglia, leciti e illeciti, che sono al di sopra di ogni bene e felicità.
Questa serie, dunque, pone al centro il concetto di infamia, che sembra essere poco presente nelle attuali società, forse relegato a considerazioni legate alle famiglie criminali, che così additano chi tradisce e non rispetta i dettami dell’appartenenza a quella organizzazione.
È la stessa condizione mostrata nella comunità gitana che tarda ad evolversi e a modificare antiche regole; infatti non c’è altra soluzione che la fuga altrove, l’abbandono di famiglie estese, che si tengono insieme purché si rispettino le prescrizioni imposte, per cercare la realizzazione dell’uomo e della persona che reclama diritti e libertà.
È la ricerca del futuro e del progresso che impone di creare brusche fratture e seguire strade diverse: non certamente quelle comunitarie, soprattutto quando esse lasciano tutto invariato. Il percorso da intraprendere è arduo e difficile: occorre sfidare il senso di coesione, anche i legami affettivi, ma con la possibilità di poter affermare la propria attitudine e l’ingresso nella modernità inarrestabile.
Un’ultima considerazione è quella del ruolo della protagonista che afferma il suo essere donna, esaltando una forma certamente evoluta e paritaria in termini di diritti e libertà. Per fare ciò è disposta a combattere il maschilismo, i soprusi, la violenza, tutte quelle forme che servivano un tempo a salvaguardare la tradizione, che imponeva quel “familismo amorale”, concetto introdotto alla metà degli anni cinquanta del novecento da Edward C. Banfield, che si occupò di una realtà chiamata Montegrano (in realtà Chiaromonte, Potenza). Lo studioso ipotizzò che certe comunità sarebbero arretrate per ragioni culturali, in cui c’era una concezione estremizzata dei legami familiari per massimizzare i vantaggi materiali della propria famiglia.
E il caso della famiglia tradizionale gitana non è dissimile dalle realtà più arretrate e chiuse del nostro Mezzogiorno.