23 Novembre 2024

Le donne, la cultura, la violenza. Un contributo sociologico

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di Pasquale Martucci

Per molto tempo nella cultura occidentale si è pensato che le differenze di genere rispecchiassero semplicemente la diversità biologica o comunque “naturale” tra i due sessi, in quanto il genere rimanda al concetto anglosassone di gender, riferendosi ai “ruoli maschili e femminili, attraversati da differenze di ceto, cultura, etnia, religione, orientamento sessuale” (Dizionario di Filosofia”, Treccani). C’è stata l’assolutizzazione del genere, la convinzione che le caratteristiche psico-sociali assegnate a uomini e donne siano un dato definitivo e irrevocabile: gli individui sono portati ad adeguarsi agli stereotipi di genere e a modellare “automaticamente” su di essi l’esistenza quotidiana.

La socializzazione di genere, l’apprendimento dei ruoli ritenuti propri e delle aspettative sociali connesse, è un processo precoce che avviene a partire da famiglia, scuola, media: gli adulti incoraggiano nei bambini comportamenti e atteggiamenti considerati adeguati al genere di appartenenza, biasimando quelli ritenuti non conformi.

La teoria del gender sostiene che esiste una differenza tra sesso e genere: il primo riguarda la caratteristica umana riscontrata alla nascita; il secondo un aspetto più propriamente culturale. Questa precisazione ripropone questioni legate a ruoli e dinamiche di potere tra i sessi in qualsivoglia società; inoltre molti sostengono che è necessario superare la concezione di un sesso inteso in senso biologico e naturalista, quale matrice di un complesso di caratteri che identificano uomo e donna. Per Chiara Saraceno, il genere è la “differenza sessuale socialmente prodotta”, e non si limita al solo aspetto legato alla sessualità, ma riguarda: ruoli, comportamenti, aspettative, emozioni, relazioni, rispetto al sistema sociale di ogni individuo, ovvero una costruzione sociale che va oltre quella naturale di tipo biologico. (C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, 4 ed., Il Mulino, 2021)

Questa concezione del genere produce anche nello stesso universo mentale femminile l’introiezione inconscia delle strutture androcentriche su cui si è costruito nel tempo il potere maschile, secondo paradigmi culturali e schemi di valore che si trasmettono tra le generazioni. Quest’assimilazione/interiorizzazione di un dominio maschile come elemento acquisito è una delle cause che produce e rafforza l’inclinazione alla subalternità e alla sottomissione su cui poggia la “mitologia androcentrica”, che un tempo aveva le sue fondamenta sull’egemonia patriarcale esercitata nella famiglia e che è ancora presente, con le dovute differenze culturali, in diverse aree geopolitiche.

Se le società del passato avevano ruoli ben definiti, oggi occorre la combinazione di elementi strutturali e simbolici, sfidando la complessità della società, perché la definizione di maschile e femminile non è così differenziata. Il soggetto entra in contatto con una varietà di stili, mode, gesti e comportamenti su cui riflettere, anche perché l’individuo può modificarsi in relazione ai percorsi biografici scelti.

Partendo dalle condizioni socio-culturali, Franco Ferrarotti intende una sociologia che non guarda solo alle leggi scritte ma soprattutto al costume, che si evolve in maniera lentissima. Le donne lavorano ma continuano a preoccuparsi del bambino, secondo una disposizione affettiva, naturale, legata soprattutto al legame di sangue, anche se non solo. Ed allora emergono discrasie tra “lavoro e famiglia”. (F. Ferrarotti, Lezioni dai Corsi 1987-1988, a cura di M. I. Macioti, Guida 2018)

Credo che valga la pena affrontare il problematico rapporto famiglia/società.

Un tempo emergeva la figura predominante del padre/padrone. Sartre sosteneva: “Sono stato fortunato perché mio padre è morto giovane e non ha avuto il tempo di schiacciarmi”.

Aristotele faceva derivare la famiglia da una comunanza di valori, stili di vita, prestigio, status, ruolo. Nel diritto romano, il pater familias è il patriarca che ha diritto di vita e di morte sui membri della famiglia. La sua costituzione originaria non è stata superata neppure in occasione dei movimenti studenteschi del ’68, quando si cercavano nuovi tipi di strutture familiari, magari con i matrimoni aperti, con l’antica comunanza del vivere insieme, con la famiglia concepita come idea di amicizia. Si è trattato tuttavia di un rinnovamento illusorio, “anche se ha prodotto scintille dai clamorosi fallimenti” (Ferrarotti).

Le dimensioni ridotte della famiglia nucleare hanno portato alla condivisione del 50% della patria potestà, e ciò è certamente un’evoluzione. Marito e moglie diventano compagni: se la famiglia tradizionale lavorava e viveva nella stessa dimora, nel mondo industrializzato c’è la netta distinzione tra lavoro e vita, con il luogo di lavoro che diventa di conversazione, un luogo legato alle interazioni umane. Le donne acquisiscono uno spazio pubblico e modificano le stesse dinamiche relazionali familiari.

La società industrializzata spegne il tradizionale focolare domestico, facendo emergere anche i problemi di coppia, che prima erano risolti entro l’ambito della famiglia allargata. I nuovi incontri differenziati producono fratture che incidono nella fluidità familiare: ora i membri devono rinnovare ogni giorno il patto coniugale che gli psicologi definiscono necessario anche se usurante e logorante, per la mancanza di attività in comune che causano differenziazioni di dinamiche interpersonali.

Sostiene Schopenhauer che la coppia è come due porcospini. Se sono troppo vicini si pungono, se sono troppo lontani hanno freddo. Occorre trovare l’incontro giusto per trarre felicità e positività, rispettando l’identità di ognuno dei due membri.

Se originariamente la procreazione era lo scopo del matrimonio e si facevano molti figli, sperando che alcuni potessero sopravvivere, oggi non si vive più insieme e non si pensa che occorre per forza procreare: si sviluppa la gratificazione personale del rapporto “erotico-sessuale-sentimentale”. Ad ogni modo, sia uomo che donna cercano il cambiamento ma anche la stabilità, avendo presente che oggi la famiglia è una società di mercato che partecipa al contesto entro cui è inserita. Nel passaggio dalla famiglia allargata a quella nucleare, si notano: la caduta dell’indice di procreatività; il matrimonio ritardato; la consapevolezza che l’apporto dei nuclei originari non è più importante; la tendenza verso il meticciato con l’avvento degli immigrati; la caduta del potere autoritario e la ricerca di quello autorevole.

Nella famiglia, conclude Ferrarotti, continuano ad essere importanti la cura e l’educazione dei figli; eppure queste funzioni sono un problema per la donna che deve scegliere tra carriera e figli, senza ricevere alcun sostegno. La famiglia soffre delle stesse difficoltà della società globale, con uno sviluppo angoscioso e senza punti di riferimento.

Essenziale è il nuovo concetto di “cultura”. Nel passaggio dalla tradizione, che impediva alle donne di entrare nel mercato del lavoro e proibiva la partecipazione all’agorà, alle società attuali, vi è l’ingresso delle “culture altre”. Per essere consapevoli della nostra cultura, dobbiamo confrontarci con coloro che non la condividono, cercando di giungere ad un dialogo tra esseri umani, nel caso specifico tra uomo e donna, facendo più di uno sforzo per prendere coscienza del cambiamento dei tempi. Il passaggio da ruoli ascritti a quelli acquisiti produce una crisi che tarda ad essere affrontata.

Nel film: C’è ancora domani, di Paola Cortellesi, la protagonista spera di liberarsi dal peso di una famiglia patriarcale che la relega in una condizione di silenzio e subordinazione; trova la forza di ribellarsi attraverso un riscatto da concretizzare nella possibilità del diritto al voto. Tuttavia, man mano che la donna acquisisce gli stessi diritti degli uomini, questi ultimi si sentono depredati di quella che è considerata da sempre la loro caratteristica identitaria più importante: la forza. Se prima le donne subivano la forza dell’uomo, ne erano assoggettate e non avevano mezzi per difendersi, oggi emergono: la voglia di libertà; le parole che superano il silenzio; il libero arbitrio che soppianta la subordinazione.

Questi cambiamenti generano nell’uomo un forte sentimento di paura: abbandonare i vecchi valori è un processo lungo e difficile, ed allora l’uomo, per combattere il cambiamento del suo mondo e contrastare la messa in discussione della sua identità, ricorre alla violenza anche più estrema.

La violenza fisica sicuramente è quella che colpisce di più: calci, pugni, schiaffi, bruciature, spinte, sconvolgono perché lasciano segni evidenti, come lividi, ematomi, cicatrici. A volte passa in secondo piano la violenza psicologica, che può risultare come qualcosa di meno grave rispetto ad altre, nonostante sia una forma subdola: essa concerne qualsiasi comportamento volto a ledere l’identità e il rispetto della persona, e si concretizza tramite l’uso di un linguaggio denigratorio formato da appellativi ed epiteti volti a svalutare il più possibile la donna. Molti uomini prima di arrivare alla violenza più estrema tentano in tutti i modi di distruggere psicologicamente le donne: non potendole controllare, le definiscono “poco di buono”, esseri inutili, e cercano in tutti i modi di isolarle. Tutto ciò può devastare l’autostima di una donna che può convincersi di non valere, dubita di se stessa cercando di cambiare per compiacere quell’uomo che con i suoi comportamenti le richiama “all’ordine sociale stabilito”.

Tra le varie forme di violenza contro le donne, lo stupro è la pratica più abbietta, perché pone la donna in una condizione di assoluta incapacità di difesa sia quando lo stupro è commesso da un gruppo sia quando ad agire è una singola persona. Ciò accade con l’uso della forza fisica, dell’alcol o di sostanze stupefacenti, che debilitano la volontà di reazione. Alla base dello stupro c’è la convinzione che occorre ridurre la donna a oggetto, a strumento di godimento, a un pezzo di carne destinato a soddisfare gli appetiti sessuali del maschio. Le ricerche tuttavia dimostrano che gli stupratori non sono individui iper-sessuati: si tratta soprattutto di manifestazioni di forza, prevaricazione, rabbia, più che di desiderio sessuale (Alberto Pellegrino, Violenza contro le donne nella società contemporanea, https://letteredallafacolta.univpm.it/).

La violenza maschile contro le donne non è solo un reato da punire con pene severe; bisogna anche collocare il fenomeno all’interno di un contesto sociale e culturale per procedere sul piano dell’educazione e della costruzione di nuovi modelli culturali. La battaglia contro la violenza sessuale deve passare attraverso un’educazione alla sessualità e all’amore, per valorizzare l’incontro tra i sessi come incontro tra differenze.  Questo tipo di formazione non può prescindere da un’educazione al rispetto dell’altro, dalla convinzione che la domanda d’amore non può mai coincidere con il sopruso e con l’annientamento della libertà dell’altro (Massimo Recalcati).

Negli ultimi anni, la sociologia ha posto l’attenzione al genere, creando insegnamenti specifici che si indirizzano ai principali modelli interpretativi dell’evoluzione del sistema famiglia a livello nazionale ed internazionale. Gli argomenti più rilevanti che vengono affrontati riguardano: le teorie e gli strumenti operativi per la lettura dei contesti familiari; i fattori che concorrono a determinare i ruoli di genere; le dinamiche riguardanti le disuguaglianze tra uomini e donne; l’interesse verso la socializzazione ai ruoli sessuali; l’accettazione e condivisione delle differenze.

Le tematiche su cui si insiste maggiormente sono: la costruzione sociale del genere; la sessualità in una prospettiva sociologica; le forme di violenza e di discriminazione in relazione al genere e all’orientamento sessuale: femminicidio, omofobia e transfobia.

Molto si sta facendo, anche se si tratta di fenomeni sociali che si scontrano con una cultura che tarda a cambiare, perché i mutamenti sono sempre lenti soprattutto quelli dei costumi e delle abitudini umane.

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