23 Novembre 2024

Giorgia, declino annunciato

di PASQUALE SCALDAFERRI

La vittoria di Alessandra Todde in Sardegna rappresenta una svolta epocale nel frastagliato panorama politico nazionale.
Il responso delle urne, che consegna per la prima volta nella storia la guida della Regione a una donna, fotografa in modo inequivoco come la coalizione progressista sia vincente quando costruisce l’alternativa attraverso programmi, gioco di squadra, progetti di sviluppo, candidati seri e credibili, eliminando personalismi e tentazioni di soggiogare uno schieramento al partito più forte numericamente, viceversa agendo sempre con pari dignità, sforzandosi -senza forzature- di imboccare la strada della coerenza e della concretezza.
Il dato più eclatante dell’isola è la sonora sconfitta della destra-destra-centrino, con la presidente del Consiglio detronizzata dall’elettorato che nel segreto dell’urna ha ricacciato indietro il suo intervento a gamba tesa con l’imposizione di un candidato, inviso anche ai suoi amministrati cagliaritani e, di fatto, provocando un’ulteriore divaricazione tra due anime del governo: Fratelli d’Italia e Lega.
Il partito della premier ha raggiunto solo il 13,6% dei consensi, dimezzati rispetto alle politiche del 2022, mentre il carroccio ha toccato un misero 3,7%, con molti epigoni di Salvini che hanno fatto ricorso al voto disgiunto.
Sarebbe facile ora scrivere che la “cacciatrice di nemici ovunque” è malamente intruppata su Truzzu, sindaco di Cagliari, sconfitto anche nel capoluogo e meno votato delle liste che lo appoggiavano.
Anzi, più di un terzo degli elettori leghisti si è espresso a favore del nuovo governatore.
E senza il velleitario Renato Soru, uno dei fondatori del Pd, Todde avrebbe chiuso la partita con un margine ben più ampio, oltre il 54 per cento.
L’ex presidente della Regione dal 2004 al 2009, più che dai programmi si è fatto avviluppare dall’acredine dell’ex, patologia che sortisce sempre un risultato incontrovertibile: deragliare e trascinare dietro di sé macerie, favorendo la compagine che a parole si intende contrastare.
Il popolo sardo ha capito tutto, privilegiando la sua profonda e intatta matrice identitaria nel respingere al mittente le ingiunzioni di palazzo Chigi.
Giorgia Meloni, obnubilata dagli stucchi del potere e dagli arazzi dei salotti, oltre a farsi un autogol ha pure reso meno latente la contrapposizione con l’alleato-coltello e suo vicario.
Dunque, in questo primo round regionale il vero vincitore è Giuseppe Conte che si allea con il Partito Democratico solo se c’è un candidato presidente capace di aggregare, senza recitare la parte dell’uomo solo al comando.
Pratica che anche stavolta ha inteso esercitare l’ex rottamatore (più ex che rottamatore), Matteo Renzi, ossessionato dall’odio nei confronti del leader pentastellato.
Il giamburrasca della politica ha perso un’occasione importante per distinguersi in questa fase cruciale. E poiché le partite perse risultano sempre più dolorose specialmente se si è malati di sicumera, bene ha fatto a condividerle con il suo eterno amico-nemico-rivale: Carlo Calenda.
A nulla è valsa l’opzione Soru, trombato e fuori dal parlamentino sardo per non aver raggiunto il quorum.
Ma il voto ha anche dimostrato quanto dalle sconfitte si possa trarre una lezione salutare per invertire la rotta masochista. Quasi un processo catartico.
Il Pd, dopo le incertezze iniziali e il movimentismo apparente e appariscente della segretaria Elly Schlein eletta poco più di un anno fa, ha definitivamente archiviato le scorie del perdente di successo, Enrico Letta, infallibile architetto di squadre battute già prima di iniziare una gara, come avevamo preconizzato alle politiche del 25 settembre 2022 in cui consegnò l’Italia in un sol colpo nelle mani di Salvini e Meloni.
Più attento ai tatticismi che alle strategie, l’accademico toscano rientrato da Parigi per rivitalizzare le esangui truppe democratiche, pensando di essere facitore di una grandeur e assalito dalle fisime della coalizione ampia, riuscì a depauperare l’unico cartello elettorale in grado di garantire una competizione non ìmpari con lo schieramento di destra: l’apparentamento con il Movimento 5Stelle, depurato finalmente dal vanaglorioso Di Maio e bonificato dal fanatismo macchiettista di alcuni suoi attori.
Nell’ultima tornata elettorale il Pd è rinsavito, senza tentennamenti ha sposato il progetto M5S, inchiodando la destra-destra-centrino a una inopinata e cocente sconfitta.
All’orizzonte altri due appuntamenti elettorali che potrebbero ridisegnare la mappa politica nazionale.
Domenica 10 marzo in Abruzzo il campo larghissimo -o per dirla con Conte “il campo giusto”- proverà a battere il governatore uscente Marco Marsilio, in una gara apertissima che nei sondaggi registra pochi decimali di differenza tra i due candidati, con l’ex rettore dell’università di Teramo, Luciano D’Amico, sostenuto anche da Azione e Italia Viva, nella circostanza non belligeranti verso lo schieramento progressista.
Una sfida fondamentale perché strapperebbe la prima Regione a guida FdI nella circoscrizione in cui è stata eletta Giorgia Meloni.
Seguirà il test Basilicata, amministrata da cinque anni e per la prima volta dalla sua istituzione dal centrodestra, con il forzista Vito Bardi che il 21 e 22 aprile tenterà la riconferma contro la coalizione di centrosinistra.
Veti incrociati e dissensi sul metodo delle scelte tra i partiti non hanno consentito di ufficializzare il competitor del presidente azzurro.
Ancora una volta affiorano antiche paturnie tra Pd e M5S, ma entro sabato 2 marzo in un incontro a Potenza tra i maggiorenti dei due schieramenti la trattativa dovrebbe sbloccarsi, trovando un accordo su temi, progetti e programmi.
Tra 20 giorni scadrà il termine per depositare le liste ufficiali e Angelo Chiorazzo, re delle cooperative bianche con solidi agganci in Vaticano, potrebbe essere il nome per cementare la coalizione, al netto di alcune frizioni più personali che di strategie operative.
Sempre in attesa di sapere cosa uscirà dal cilindro di giamburrasca e del suo ex sodale al ministero dello Sviluppo economico, entrambi inabissati nel mare della Sardegna e ancora irresoluti, dopo infinite giravolte, sul percorso da intraprendere tra il ruolo di opinionisti da social o veri interpreti e protagonisti della politica repubblicana.

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