Nulla di personale
di Stefano Cazzato
Segnate questo nome, Lombard, il cui fantasma (non sapremo mai se è un uomo, una bestia feroce, il male in persona, il diavolo, un serpente velenoso, la mano visibile di qualcosa di terribile e di invisibile) compare dalle prime pagine.
Segnatelo, non perché di questo romanzo importino tanto il genere, un bel pulp grottesco e surreale, o la trama, comunque avvincente e originale, ma segnatelo perché vi troverete di fronte a una grande metafora, una di quelle che non dimenticherete mai.
Nel cuore di un’Europa superindustrializzata, in una grande azienda farmaceutica chiamata a riorganizzarsi per competere sul mercato mondiale con meno costi e più profitti, alla faccia delle relazioni sindacali e della dignità delle persone, accadono cose stranissime dopo che un cacciatore di teste si è insediato per fare firmare al personale lettere di licenziamento e avviare le procedure di mobilità.
La promessa è che se gli impiegati firmeranno volontariamente, senza creare grane, saranno ricollocati altrove, non si sa bene dove e come. Chi non firmerà o si opporrà ai piani del capitale, chi (ben pochi) proverà a schierarsi con i più deboli, chi – sbandierando un contratto a tempo indeterminato – opporrà il minimo dubbio o dissenso, chi vorrà vederci chiaro …
Non diciamo niente di più se non che questo meraviglioso romanzo dell’olandese Tom Hofland ha la forza, la lungimiranza, la profezia di un 1984 o di un Farenheit 451. Ha la potenza distopica del mondo in cui non vorremmo mai vivere, ma nel quale forse già viviamo.
Ci mette di fronte alla banalità del male, all’abisso in cui precipitiamo quando uomini normali, non cattivi, come il dirigente Lute, guardano dall’altra parte, delegano, restano in silenzio o si arrendono alla logica naturale del mercato; quando l’impersonalità prevale sulla responsabilità e la deontologia prende il posto dell’etica.
In fondo, nelle pratiche ormai invalse della precarietà, della delocalizzazione e dello sradicamento, non c’è nulla di personale, solo fattori professionali: è questa la litania che si sente ripetere dal supermanager ogni lavoratore dell’Aletta (così si chiama la multinazionale) che sta per essere cacciato. E, come vedrete, cacciato non solo in senso metaforico.
Se c’è una pistola, da qualche parte del racconto, diceva Cechov, qualcuno prima o poi nel resto della storia la userà. Qui non c’è una pistola, ma un fucile (il che forse è peggio) e c’è pure un brutto grosso cane nero. E un cowboy smidollato.
Senza essere moralista, Hofland lancia l’allarme sulla china ultraliberista delle nostre democrazie, svuotate dal di dentro – in nome della modernità – di diritti, dignità, sentimenti, bellezza, relazioni, spazi e tempi umani, progetti di vita, futuro e chissà un giorno forse anche dello stesso esistere fisico.
Il suo messaggio politico colpisce nel segno, più di un trattato di sociologia del lavoro e di un’indagine statistica, più della sparuta protesta di un sindacato e del programma di un partito laburista, così interni ormai al sistema da doversi contentare che le cose, in fondo, potevano anche andare peggio. Peggio di così?
Tom Hofland, Il cannibale, Carbonio editore, 2024, pp. 199, Euro 18.00