16 Settembre 2024

Non è nuovo, Gaetano Fierro ad occuparsi di opere e temi riguardanti la letteratura angloamericana, d’altro canto la sua laurea in lingue gli fa da corrimano immediato. Ed eccolo dunque a confrontarsi con Herman Melville, un autore che conobbe alterne fortune in vita: ricchezza e fallimento del padre, viaggi come marinaio, qualche fortuna editoriale in gioventù e dimenticanza nella maturità.

Uno scrittore rimbalzato agli onori della cronaca a più riprese dal 1921 in poi, con la riedizione e il successo mondiale del suo maggiore romanzo e in Italia nella stagione di passaggio da millennio a millennio, dopo che Vittorio Gassman ha pensato di portare sulla scena un adattamento teatrale del Moby Dick, la balena bianca. Per noi ragazzi il romanzo fece certamente da vicenda formativa, non so quanto opportunamente addomesticato e tagliuzzato di qua e di là per la letteratura dell’infanzia e ridotto a una favola incredibile nella quale Ahab, il comandante di una baleniera rincorre un mostro meraviglioso, che poteva fungere per molti versi da simbolo della purezza e della formazione interiore, ma anche della infanzia primigenia del mondo, dato l’ albore della sua pelle, valori inseguiti per secoli e riconosciuti come irraggiungibili. Un Eden perduto e desiderato che solo un Ulisse o un Faust sognava di raggiungere.

Ma Melville, uomo di mare, aperto come narratore alle grandi vicende letterarie di Swift e di Conrad,amico di Nathaniel Hawthorne, emulo di Darwin che cerca nelle molte regioni bagnate dagli oceani le origini dell’uomo e delle specie, ha incontrato l’interesse del pubblico novecentesco proprio con quel romanzo biblico che è Moby Dick. Una vicenda che apre al trascendentalismo statunitense di metà Ottocento su cui si è molto intrattenuto Elio Vittorini , insieme a Poe, Emerson, Withman, Thoreau, Hawthorne e che dà la stura al sentimento decadentistico del nostro secolo. Una vicenda che verrà ripresa a ben guardare da Hemeinguay de Il vecchio e il mare, dove al gigantismo della balena si sostituisce l’infinitamente piccolo quale può essere un marlin che attraversando il mare attrae l’interesse di un pacifico e anziano marinaio. Ma la simbologia non muta, sia nell’uno che nell’altro, la ricerca della felicità e della purezza primigenia, l’individuo di fronte alla vita, alle aspirazioni, al destino avverso e alla morte. L’infinito è lì, irraggiungibile e inspiegabile.

Il fondamento critico da cui Fierro parte è quell’Agostino Lombardo sui cui studi ci siamo tutti formati alle università di Bari e di Roma e a cui l’autore dedica il saggio. Allievo di Mario Praz, Lombardo è stato sicuramente l’italiano che maggiormente ha scandagliato la grande letteratura inglese e americana e che ci ha aperto la strada a nuove e più profonde interpretazioni di Marlowe, Milton, Shakespeare oltre che di autori come Stevenson e Melville.

Da dove nasce la passione di Fierro per questo scrittore?

“Il nostro scrivere parte da un desiderio, da un sogno nel cassetto, di un giovane adolescente che fantasticava di conoscere l’America, di raggiungere i parenti emigrati tra le montagne del Colorado”.

Ma il Melville di Fierro va oltre il sogno di un adolescente e gli studi del maestro Lombardo, nel senso che riesce a far confondere le aspirazioni dello scrittore newyorchese con quelle del critico e del politico lucano. C’è nella vita di Gaetano un progetto gigantesco quanto Moby Dick, qualcosa che affianca il viaggio in America, ed è un sogno inseguito da decenni e che io riesco a cogliere nella Grande Lucania. Le navi su cui si aggira Melville, la “Highlander” e la “Acushnet” diventano in Fierro la politica, un mezzo procacciatore di potere e tuttavia soggetto all’oceano dell’incertezza e del pericolo costante.

Più volte Fierro ne ha parlato, non ha fatto misteri del suo sogno, scrivendone in articoli convegni saggi, promuovendo incontri e dibattiti. La Grande Lucania è il sogno di una regione dell’Italia Meridionale che tende a ricomporsi in quei territori che furono compresi nei confini d’ età magno greca. Una Lucania che va dalle città di Sibari a quelle dell’alto tarantino e a nord accoglie le città di Vallo della Lucania e Sapri, tocca il golfo di Policastro sul Tirreno. Un sogno in qualche modo emulo di quello che negli anni Novanta ha unito tutti i balcanici di lingua albanese, tutti i popoli sparsi tra Macedonia, Grecia e Montenegro. Un sogno ancora più complesso da realizzare.

La Grande Lucania nuota nel mare del Mezzogiorno, vorrebbe risucchiare quelle cittadelle che le appartennero molti secoli orsono ma che ragioni e vicissitudini politiche hanno assegnato alle contigue regioni della Campania e della Calabria. Ahab – Fierro si aggira sui mari della politica e delle opinioni provando a dare concretezza a questo sogno. Che oggi si allarga all’altro di riportare in patria quanti sono fuggiti dietro gli studi universitari e all’eldorado di stipendi favolosi proposti da altre nazioni.

Ma seguiamolo Gaetano Fierro in alcune fasi della sua esistenza e dei suoi studi.

E’ un viaggiatore instancabile Gaetano che ricordiamo per la sua attività di sindaco di Potenza per due legislature, quando ha dovuto affrontare il terremoto del 1980, che ha significato ricostruire la città ferita,per la quale ha riattato il Teatro Stabile, il Palazzo Loffredo e il Conservatorio Carlo Gesualdo.

Pochi conoscono Fierro come autore di una miriade di libri, tra i quali mi piace ricordare i saggi politici sul Mezzogiorno, sull’ Eurocomunismo di Santiago Carrillo e sulla questione politica relativa alla parità e alle pari opportunità tra uomo e donna.

Nella passione politica è compresa ovviamente la vita della Basilicata. Fierro ha pensato bene di ricostruire la stessa immagine della regione lucana offerta dai pochi viaggiatori stranieri che l’hanno attraversata in tempi lontani: Il mito della Lucania sconosciuta. Antologia di viaggiatori stranieri tra Settecento e Novecento, (Osanna, Venosa). Il titolo è mutuato da un’affermazione di Francois Lenormant: “A fianco all’Italia che tutto il mondo conosce, esiste,quando ci si inoltra nell’estremo meridione,una seconda Italia sconosciuta che non è meno interessante dell’altre”. Le ragioni del buio che ha avvolto questa terra dice lo scrittore francese sono molte,il terrore dei briganti, la mancanza di strade,il disagio degli alloggi.

Lo studio parte dalla spedizione che intrapresero nel 1778 alcuni intellettuali francesi, gli artisti Despréz e Renard,il pittore Chatelet,il segretario di ambasciata Dominique Vivant de Non. Oltre a una stringata relazione, il gruppo produsse una bella collezione di 558 tavole, di cui otto dedicate alla Lucania. L’opera prende il titolo di Voyage Pictoresque e ha come finalità toccare e raccontare le bellezze della Magna Grecia. Dopo aver attraversato la Campania, i viaggiatori raggiungono Taranto, Metaponto e il tempio di Pitagora innalzato in onore di Giunone. La spedizione tocca quindi Bernalda e Policoro, Rotonda e Lagonegro,da dove si può penetrare la Calabria.

Antropologicamente più ricca è la descrizione che farà cento anni più tardi il Lenormant, colpito da una terra “pittoresca e interessante”. A bordo di una carrozza tirata da quattro cavalli, Lenormant costruisce il suo A’ travers l’Apulie et la Lucanie, nel quale ricorda di aver toccato molti borghi lucani,tra cui Melfi,Venosa Acerenza e Potenza. Emile Bertaux darà un giudizio lusinghiero del racconto di Lenormant, ma con riserve per ciò che il viaggiatore descrive a proposito dell’arte. Lenormant prova “ad abbozzare un quadro colorito della storia medievale, così pittoresca di quei paesi;non s’è fermato allo studio delle chiese e dei castelli,e quelli che scrive di passaggio non può sempre essere accolto con fiducia”.

Il racconto di Fierro chiama in causa tra i viaggiatori francesi Jules Giurdault ed Emile Bertaux che per quattro anni lavora intorno all’area del Vulture e pubblica i risultati delle sue indagini nello studio I monumenti medievali della regione del Vulture. Bertaux individua due influssi formidabili per la realizzazione di questi monumenti, la cultura dell’Oriente bizantino,che si ritrova nelle cripte del Vulture,le sculture della cattedrale di Rapolla e i fregi di Santa Maria di Pierno prodotti da mastro Sarolo da Muro Lucano, un secondo nella presenza Benedettina e Cistercense che leggiamo nella Trinità di Venosa e nella cattedrale di Acerenza. Un terzo elemento verrà con l’arte di un architetto francese, Filippo Chinard,che lascerà un segno tutto particolare nella realizzazione dei castelli di Melfi e di Lagopesole.

Passando ai viaggiatori inglesi,Fierro cita Henry Swinburne che visita Napoli e la Sicilia tra il 1777 e il 1779. Affianco a questo intellettuale colloca il barone Richard Keppel Craven, il poeta umoristico Edward Lear, gli scrittori George Gissing e Norman Douglas e lo scozzese Ramage che viene accolto dal sindaco di Maratea con grande festosità. Ospitato in casa del primo cittadino, il povero Ramage dovrà vincere sonno e stanchezza e far fronte a un capretto arrosto, ai conigli in salamoia e alla gelatina di maiale e ancora ad insalate di sedani e fagioli. Un’accoglienza eccessivamente gentile che spiega anche come questi viaggiatori si affidassero molto al senso di ospitalità delle genti di Magna Grecia. Un racconto minuzioso che ricorda le memorabili collezioni di narratori stranieri curate da Giovanni Dotoli, Fulvia Fiorino per la Puglia, quella di Giovanni Caserta per la Basilicata e di Attanasio Mozzillo per tutta l’Italia meridionale.

L’amore per il Mezzogiorno e la Magna Grecia accende ancora l’attenzione di Gaetano Fierro che prenderà in esame la vita di Gustavo di Svezia, in un libro edito da Ermes di Potenza nel 2004: Mediterraneo, mitt kara. Sulle tracce del re Gustavo VI Adolfo di Svezia in viaggio nella Magna Grecia. Nel 1930 Gustavo Adolfo aveva preso parte allo scavo delle tombe di Stylli, nell’isola di Cipro. A lui si deve la nascita dell’Istituto Svedese di Studi classici in Roma e gli scavi di san Giovenale e di Acquarossa in Etruria. Ma una passione che accompagnò sempre il monarca svedese fu la scoperta della Magna Grecia, con viaggi costanti tra Lucania e Puglia e interessi tali che l’amministrazione di Casalvelino ha intitolato una strada al re svedese, proprio in omaggio al suo amore per il Mezzogiorno d’Italia.

Ancora la Lucania dunque, il sogno di Gaetano Fierro.

Ma torniamo a Melville. Un rapido accenno ai suoi dati biografici e a quel gruppo di poeti e narratori che hanno fondato il romanticismo americano, uomini dotati di lirismo e di epicità, per stigmatizzare un aspetto fondamentale del carattere del narratore newyorchese,il coraggio della scoperta e delle grandi azioni.

“Amo tutti gli uomini che si tuffano – scrive Melville in una lettera – Tutti i pesci sono buoni a nuotare vicino alla superficie, ma ci vuole una grande balena per andate giù per cinque miglia e oltre”.

Il romanticismo americano si basa su quella che Fierro individua nell’animo degli americani, un carattere nazionalista e uno cosmopolita. Due Americhe contrapposte, due tradizioni, due scelte persino politiche. “Un romanticismo su suolo puritano: così è definito il Trascendentalismo, di cui Ralph Waldo Emerson ne è l’indiscusso padre spirituale. Nasce così, il Romanticismo americano. E la definizione è esatta. Ciò che Emerson tenta di fare è appunto questo: una sintesi di due tradizioni”.

La sintesi delle anime, fondamento della poetica di Emerson, è la stessa che Melville accoglie nella progettualità della sua narrativa. L’imperativo è sganciarsi dalla letteratura europea e costruire una letteratura autoctona. E’ molto chiaro quando scrive a proposito della narrativa di Hawthorne :”Credetemi,amici miei, uomini non troppo inferiori a Shakespeare nascono oggi sulle rive dell’Ohio. E verrà il giorno in cui direte’Chi legge un libro che non sia moderno?”.

Fondamentale è dunque per Melville costruire una letteratura tutta americana. Ancora una ricerca della balena bianca.

Ma quale fu il nucleo centrale dell’arte di Melville? Si chiede Fierro. Se in Emerson è il trascendentalismo e in Thorau è il naturalismo, qual è il baricentro di Melville? Non sembra esserci una disposizione unica se non la ricerca del senso e del significato della vita. In lui ci sono Dante,Omero e Shakespeare e la sua è una ricerca del Leviatano di cui ha parlato Milton,ma soprattutto la ricerca della verità, della ragione per cui siamo qui. Adamo, Ulisse, Faust sono i ricercatori che arrivano a dannarsi. Questa linea la si riscontra già nel suo primo romanzo,Typee,del 1846 e ritorna l’anno successivo in Omoo. Forse l’anticipazione di Moby Dick è anche in Mardi, un romanzo del 1849. Il protagonista Taji ha incontrato una ragazza bianca di cui si innamora perdutamente, Yillah. Ma dopo alcuni giorni di passione infuocata,la ragazza scompare e invano Taji la cercherà tra tutte le isole della Polinesia. Mardi è “il simbolo più alto e più complesso, quello del mare … simbolo pieno del mistero universale,della terra incognita”.

Un altro elemento che Fierro scopre in Melville è la distanza tra realtà e illusione,tra realtà e immaginazione, ovvero,la vita qual è e la vita che vorremmo. Il tema è affrontato in White Jacket, un romanzo del 1850. La giacca bianca che il marinaio Jack Chase indossa è il simbolo di tutti gli aspetti negativi e avversi in cui la società avvolge l’individuo. La giacca si trasforma in un sudario che se copre il corpo del giovane, a lungo andare lo imprigiona. Chase ne avrà contezza durante un naufragio. Chase vorrebbe liberarsene, afferra un coltello e affonda la lama nel tessuto, fa saltare i bottoni. “Con uno strappo violento mi trassi fuori di essa, e fui libero. Inzuppata com’era affondò lentamente davanti agi occhi”.

Il più lungo e drammatico viaggio narrativo Melville lo compie con Moby Dick. Ancora una volta la scena è il mare e nel mare una nave carica di malviventi, avanzi di galera,il “Pequod”. Il “Pequod” fa il giro del mondo e all’equatore ecco un mare piatto, con un’aria ferma e greve. E’ un limbo piatto, un luogo di attesa e di sonnolenza. In questo clima,Ahab si interroga, a che pro rinunciare alla quiete e gettarsi all’inseguimento? “Perché tirare il pesante remo? Perché lanciare il ferro e la fiocina? Che cosa mi porta tutto ciò? Mi arricchisce?”

E’ l’interrogativo dell’anima inquieta, una riproposizione di quel verso di Dante “State contente umane genti al quia”. Ma perché l’uomo non riesce a farsi contento del silenzio e dell’attesa?

Il secondo giorno scivola nello stesso silenzio, ma il terzo ecco apparire una macchia bianca che scatena la furia nell’anima di Ahab, la chiamata alla lotta. Una lotta terrificante che vedrà soccombere entrambi,il capitano e la balena.

Melville si rende conto di aver scritto un libro che la critica non apprezza, ma che è intrisa di misticismo. “Il peccato di Ahab è quello di Adamo ed Eva – conclude Fierro – la sua colpa quella di voler mangiare del frutto della conoscenza; è il peccato dell’Ulisse dantesco, di Faust e … Ahab è diventato un monomaniaco,è dominato da un’ossessione, cui tutto sacrifica, ogni umano rapporto e legame”.

Ahab, conclude Fierro, è l’uomo moderno,consapevole dei propri limiti e della propria grandezza e soprattutto incapace di fermarsi e di rinunciare all’azione, perché la stasi è la morte, una morte totale già nella vita.

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