8 Settembre 2024

di Pasquale Scaldaferri

Gli dei del pallone hanno sempre ragione.
La scalcagnata nazionale di calcio torna mestamente e meritatamente a casa, dopo che la fortuna che l’ha accompagnata in questi mesi -fino al gol immeritato nell’ultimo secondo contro la Croazia- le ha rovinosamente voltato le spalle.
Ma se un arbitro men che mediocre avesse concesso un sacrosanto rigore all’Ucraina nell’ultima gara di qualificazione all’Europeo di Germania, la banda Spalletti avrebbe dovuto affrontare le forche caudine dei play off e chissà se ci saremmo risparmiati questa figuraccia teutonica.
Perché quella nazionale non meritava di qualificarsi direttamente in Germania. Ma chi ne accompagnò il viaggio forse immaginava che l’Ucraina -impegnata in una partita ben più seria e drammatica- non avrebbe mai inscenato una plateale protesta.
Neppure quell’episodio, però, ha fatto riflettere il toscano di Certaldo, che dall’alto della sua striscante prosopopea ha continuato a parlare dei meriti della sua formazione, costruita male, gestita peggio e mai assemblata. Sempre simile a una macchina da sottoporre a continua revisione. Sbuffava, ma non partiva. Il motore dava noie, ma il meccanico non è mai sembrato appropriato al ruolo.

Nonostante un’informazione puerile e faziosa che cantava il peana, ma non riusciva a comprendere quanti danni avrebbe arrecato al permaloso commissario tecnico.
Scappato da Napoli con l’alibi di un anno sabbatico e poi folgorato dalle lusinghe di Casa Italia, il filosofo delle banalità che confonde concetti illuminanti con deliranti congetture, è un alchimista capace di esprimere magistralmente schemi opinabili al microfono di qualche cronista compiacente, soprattutto se deve entrare in conflitto con professionisti dell’informazione che hanno la creanza di confutare le sue cervellotiche disamine.
Il gioco di questa nazionale -senza intelletto, senza anima, senza cuore- era paragonabile a quell’ improbabile e squallida divisa sociale che indossava l’inadeguato Ct, simile a una giacca da camera che si indossa in una corsia d’ospedale, piuttosto che la verace rappresentanza dell’italian style.
Un commissario tecnico che in ogni immagine appariva spaurito, con quegli occhi che accompagnavano la gestualità delle sue sceneggiate.
Il supporto dei corifei del servilismo non è servito a nulla.
Nessun rimedio alla figuraccia poteva trovare posto nell’indecorosa campagna di Germania.
Il suo capo -il re travicello, Gabriele Gravina, responsabile principale dell’ennesimo fallimento della sua gestione- sprofondato in tribuna autorità, accanto al fratello d’Italia, Ignazio La Russa, dopo una notte insonne è pronto a parlare.
Sperando, finalmente, che insieme con i suoi accoliti pronunci una parola attesa da tutti i tifosi italiani come una gloriosa vittoria: dimissioni.

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