19 Settembre 2024

di Martucci Pasquale

Il Genius loci di una terra è lo spirito, l’anima, l’atmosfera che si respira, ma anche i colori, gli odori, i suoni, il linguaggio della popolazione, il silenzio. È questo un aspetto che riguarda il rapporto tra l’ambiente e l’uomo e le sue abitudini: indica il carattere di un luogo, legato a doppio filo agli aspetti che in esso si affermano, includendovi le opere materiali o immateriali, gli enti e gli individui cui si associa un legame storico-culturale che rende unico e immediatamente riconoscibile un’area. Il Genius Loci in realtà è l’essenza spirituale che collegava la dimensione materiale a quella spirituale, rendendo sacro lo spazio che sotto la sua influenza risultava abitato da un soffio divino, un’anima. Le popolazioni antiche avevano a cuore il rispetto dei propri numi tutelari e riempivano di sacralità i luoghi che occupavano, per non esporre la comunità al pericolo. Questa concezione obbligava le persone ad avere cura della terra sulla quale camminavano, ed avendo rispetto del loro spazio vitale potevano operare in maniera attiva al mantenimento della sacralità e dell’armonia nel mondo.

Il Genius loci è dunque l’anima (dal greco ànemos, “soffio”, “vento”, “respiro”), la parte vitale e spirituale, l’essenza delle persone, la coscienza dell’essere umano. È la predisposizione dell’uomo a cogliere i significati più profondi delle cose, quelle comunitarie, per predisporsi a comprendere le tracce della storia che si raccontano ma devono essere colte e rese fruibili. Per fare ciò occorre soffermarsi sui significati e i simboli sottesi al passato, accolti e sviscerati attraverso una predisposizione dell’animo, ma anche una grande esperienza e conoscenza della ricerca sul campo in veste di osservatore partecipante.

I luoghi hanno un’anima ed è nostro compito scoprirla; assorbe i pensieri e le tradizioni degli uomini che la abitano da millenni; coinvolge il legame spirituale con le cose che si incontrano perché il luogo siamo noi, e ce lo portiamo dentro magari senza saperlo. È l’identificazione con le comunità, aggregazioni che si sono create nei secoli e si sono anche differenziate, con un ruolo determinante delle donne che hanno provveduto ad organizzare le famiglie e a tenerle unite.

Le comunità hanno una funzione millenaria: partono dal momento in cui le genti abbandonano il nomadismo e diventano stanziali, e per tenere unite le persone si organizzano per superare gli ostacoli rappresentati dalle frequenti incursioni di altre culture. Negli sviluppi storici, le comunità hanno una funzione aggregante: i pericoli sono rappresentati dalle continue invasioni di altri popoli che, ritenendo quel territorio conforme ai propri standard di vita, cercano di perseguire una sostituzione, che tuttavia non può mai essere integrale, ed allora prendono tutto ciò che c’è di buono dalle stesse diversità.

Altro elemento di pericolo è rappresentato dall’ignoto, dal non conosciuto: ci si affida a potenze divine, elaborando racconti e miti, rendendoli manifesti attraverso forme rituali: il divino è inteso come elemento protettivo. Un esempio di ciò è costituito dagli studi e dalle teorizzazioni di Ernesto de Martino, che ha individuato la relazione mito-protettiva.

Uno dei tratti più importanti dell’opera “Il mondo magico” riguarda il procedimento adottato per costruire l’universo culturale di stampo magico: i dispositivi magici, mitici e rituali sono funzionali al consolidamento della presenza umana nel mondo, che è fragile ed esposta al pericolo di dissolversi. Quando si verifica ciò, gli istituti magici approntano gli strumenti che consentono alla presenza in crisi di “resistere”. Grazie all’adozione di un simile criterio interpretativo, il mondo magico, inteso come dimensione di cultura e di storia, permette di invalidare tutta una serie di valutazioni negative e di pregiudizi, che considerano il sistema di credenze e di pratiche rituali “primitive” e da superare.

L’identità può essere definita come “un valore collettivo che si è prodotto, in un territorio caratterizzato da un forte isolamento geografico, mediante il confronto continuo della comunità con se stessa, con la natura, con l’ambiente, con il territorio e che si è definito grazie ad un sistema comune di regole e di pratiche di vita. Essa si fonda sulla memoria del passato ma anche sulla volontà di proiettare tale memoria nel futuro”. Questa è la definizione elaborata dal sociologo Aldo Musacchio e riportata nel volume: “Identità cilentana e cultura popolare”, di P. Martucci e A. Di Rienzo (CI.RI. Cilento Ricerche 1997).

L’identità presuppone una serie di elementi.

Interessi storici territoriali. Essi sono legati ad una serie di considerazioni che gravitano intorno alla storia di un territorio e ai suoi sviluppi.

Patrimonio artistico, architettonico e naturale. Partire da quelle vicende che hanno lasciato molti segni, in parte rivalutati, costituenti le risorse e le bellezze di cui dispone una comunità e che con grande fatica cerca di affermare e di proporre oltre i confini regionali.

La vita e la cultura materiale. Essa è stata associata nel passato ai cicli lavorativi, le tradizioni che si tramandavano e mantenevano coesa la popolazione, le feste, i riti, i giochi, tutti i momenti dell’esistenza dalla nascita, al matrimonio, alla morte. Tutto era cultura popolare, i mestieri, la vita quotidiana, il senso della comunità con legami e forme solidali.

Linguaggio e oralità. Le espressioni dialettali del passato un tempo erano l’unico linguaggio conosciuto ed utilizzato, che fondava il processo di socializzazione e rendeva salda la struttura sociale. Tutto ciò si estrinsecava nei racconti, leggende, miti, che interrompono la monotonia della quotidianità, dando l’illusione che l’impossibile non esiste ed esorcizzando il terrore dell’ignoto. Sono le armi con cui si è creata la “coscienza” dell’esistenza di un mondo in cui il male può essere vinto, in cui si può superare il proprio status di subalternità, rifugiandosi nella fantasia, in ciò che può essere ritenuto illogico, irreale.

Le feste e gli eventi. Essi sono considerati secondo la loro componente rituale, in quanto si sono diffuse nella tradizione e nella cultura popolare. Mi riferisco soprattutto alle feste che hanno una rilevanza in quanto consolidate nel tempo e nei luoghi, e che rispondono al criterio di essere vissute nelle comunità. Le pratiche festive comportavano la celebrazione di un rito collettivo simbolico in cui veniva messa in scena la rappresentazione di un teatro popolare di origini e tradizioni arcaiche, attraverso l’esecuzione di azioni, movimenti e gesti, in una gamma di espressioni corporali d’immediata significatività.

Diventa essenziale infine riferirsi al concetto di religio, inteso come valore sacrale.

Si parte dall’assunto che i rituali più diffusi sono quelli legati alle espressioni religiose che hanno nel corso della storia definito le tradizioni. Le comunità si caratterizzano per una profonda devozione che si estrinseca in una religiosità popolare molto sentita e partecipata, legata essenzialmente al calendario liturgico, agli atti di fede e di preghiera, attraverso il servizio ritualizzato di culto che si deve a Dio. Ed intorno ai momenti cerimoniali, si sviluppa una ritualità organizzata ed istituzionalizzata.

In accezione comunitaria si tratta di dare vita alla tendenza a ricercare il trasporto secondo una propria tradizione locale, magari riproducendo alcuni eccessi negli atti devozionali. Quando ciò accade, il parroco cerca di limitarli ed allo stesso tempo di mantenere le espressioni genuine della pietà popolare, così come desidera la maggior parte della popolazione. In uno strano connubio tra sacro e profano, il sacro che scende al livello del popolo e lo rende partecipe dell’importanza dell’attaccamento al divino, si realizzano le manifestazioni che oggi conferiscono dignità all’aggregazione festiva e la rendono dotata di simboli e riti veramente caratteristici.

In questo contesto, si realizza l’azione propiziatoria, ovvero fare in modo che Dio operi a nostro vantaggio, e di conseguenza acquisisce rilievo utilizzare doni o sacrifici per conformarsi alla sua volontà. Ed allora è essenziale il ricorso alle pratiche devozionali, per chiedere la protezione del Santo, che deve difendere la vita quotidiana e quella materiale, attraverso culti che si manifestano in rituali eseguiti nella comunità, dunque tangibili, che si distinguono da credenze e miti che rappresentano le espressioni popolari ideali.

La preghiera è la componente essenziale di un insieme di pratiche organizzate e regolate. Si caratterizza in quanto: c’è un luogo e un tempo in cui compiere l’azione; si utilizzano una serie di parole prestabilite e riflessioni spontanee; ci si affida ad espressioni e comportamenti verbali e non verbali; è praticato il linguaggio del corpo (gli individui stanno in ginocchio, a capo chino, con le mani giunte); sono introdotti oggetti, quali immagini, medaglie, elementi di devozione, ex voto, rosari, candele, incensi.

Uno degli elementi essenziali della devozione è affidato alla processione, intesa come controllo istituzionale, che implica per il praticante alcune funzioni: la pratica è obbligatoria; è regolata dall’istituzione; è fissa; riguarda la comunità; è una pratica territoriale stabile e ripetuta.

In genere il Santo che si festeggia in ogni comunità, il Santo Patrono, è raffigurato con aria mite e ascetica, il pallore a tratti nel volto, i paramenti che hanno anch’essi un loro significato. Si dice: “È bello, bravo, simpatico!”, ma lo si insulta anche se non fa la grazia, il miracolo. È importante anche per coloro che non credono. Si tratta di un personaggio del Genius loci, il simbolo identitario di una comunità. Entra in gioco nella precarietà dell’esistenza per trovare il senso di esorcizzarla. Se la comunità ha un problema trova nel Santo la speranza: il sensus fidei fidelium, sostengono i teologi. Il Santo sa cogliere nella manifestazione del prodigio (per la Chiesa ufficiale questo termine è collocato al posto del miracolo), il significato  profondo della fede: qui il dolore della vita è colorato di speranza, una speranza oltre ogni speranza.

Si mescolano fede e superstizione, sacro e profano, in un sentimento sincero proprio della pietà popolare. Un sentimento che va oltre i dogmi della Chiesa ufficiale, un sentimento genuino di un popolo che ascolta il proprio cuore. È il trait-d’union tra superstizione e fede, che si fonde nella devozione che lega la gente al suo Santo Patrono.

Il rapporto devozionale è fatto di promesse, fatti, voti reciproci, in cui il Santo è parte costitutiva della cultura, religione, pensiero, immaginazione e di tutte le manifestazioni tra il Santo e la gente: si consolida un rapporto di stima, un patto sacro, moralmente ed emotivamente manifestato; un coinvolgimento della popolazione tra speranza e timori per il futuro ignoto. I segni sono le espressioni tangibili, il legame tra corporeo e essenza dell’essere vivente, il soffio vitale che anima l’uomo. Esiste un legame collettivo, un rapporto confidenziale e consolidato che travalica i confini della spiritualità, attribuendo al Santo la protezione salvifica dell’intera comunità. In tal caso, si può parlare anche di Patrimonio laico: il miracolo non è necessario solo nella vita spirituale ma anche in quella materiale, in cui è in bilico la relazione tra sacro e profano, tra devozione e irriverenza. Qui entrano in gioco i luoghi in cui esercitare la pratica.

Tra la comunità e il suo Santo si sviluppa un processo antropologico di compenetrazione, di identificazione simbolica. Il miracolo, il segno significa stare dalla parte degli ultimi e dare voce a chi non ce l’ha. Il popolo percepisce il Santo come parte integrante della propria vicenda umana: il fedele si rivolge a lui da estraneo, è incantato, lo frequenta, ci discute ed ha la percezione di essere riconosciuto come persona. Ha confidenza con lui e intimità: stabilisce un rapporto intenso e confidenziale. Dire infatti: “Santo (e si declama il suo nome), pensaci tu!”, è un sentire familiare, profondo, fiducioso. È una supplica che ripete di fronte ad inquietudini personali, angosce collettive, catastrofi naturali.

Sacro e Santo  si identificano. La Chiesa mette in relazione questi due elementi, in cui la sacralità è personalizzata. È diversa dall’uomo perché è potenza, opera al di sopra e al di fuori dell’ordine naturale. Si tratta del rapporto basilare con il divino, il trascendente di una religiosità fiduciosa nella forza dei suoi eroi, che hanno una personalità dotata di carisma. Dal greco “karisma” significa proprio dono, grazia, considerando che nel dono c’è sempre una reciprocità: ricevo il dono dal Santo e ricambio con attaccamento e affetto.

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