21 Settembre 2024

di Pasquale Martucci

La narrazione come funzione epistemologica permette di elaborare, interpretare, comprendere, evocare. È una comunicazione argomentativa che si occupa dei valori e delle azioni compiute in una comunità e, come sosteneva Bruner, il primo dispositivo conoscitivo di cui “l’uomo fa uso nella sua esperienza di vita”. Il racconto attualizza e rende le situazioni presenti che hanno come riferimento: descrizione, contesto/cultura, rapporto passato/ricordo e futuro.

C’è nelle persone un bisogno profondo di raccontare e raccontarsi: i miti ad esempio sono grandi racconti che servono a proporre un radicamento sociale, un ricordarsi di appartenere ad una comunità che accetta il processo per sopravvivere e perpetuarsi. Céline sosteneva che solo dopo aver raccontato tutto si può morire, perché finché c’è qualcosa da raccontare c’è vita differendo l’idea della stessa morte.

Questo è l’approccio seguito dal filosofo di Seul di formazione tedesca, Byung-Chul Han nel suo volume: “La crisi della narrazione” (Einaudi Stile Libero, 2024, or. 2023). La sua critica è al modello informativo attuale che mette in crisi “la narrazione come bussola” e riduce l’esistenza collettiva a storytelling, ovvero al consumo come accumulo di notizie al posto delle storie.

Le attuali narrazioni sono disfunzionali al nostro essere-nel-mondo, che significa stare nel luogo di appartenenza e orientare la propria vita. La richiesta attuale è di seguire le regole della competizione, in cui il contingente informativo può essere sostituito a piacimento e modificato, senza essere ancorato all’essere ma ad una esistenza “al di fuori dell’incantesimo narrativo”.

Scrive l’autore che il narrare va oltre il contingente realizzando una meta che cattura gli aspetti della vita e produce un ancoraggio all’essere, inserito nel suo contesto/cultura. Senza il racconto non c’è festa, celebrazione e nessuna intensità emotiva, in quanto i rituali trasformano “l’essere-nel-mondo in una essere-a-casa”. Se il racconto dà senso, identità e forma la comunità, nello storytelling la community è composta da consumatori: si spegne il fuoco attorno al quale gli esseri umani si raccoglievano per narrarsi storie, che erano poi atti fondativi dell’appartenenza comunitaria. I consumatori sono soli e rappresentano “una pornografica esibizione o promozione di se stessi”. E così si è passati da storie che solidificano i rapporti a “storie che vedono” (Byung-Chul Han).

Le espressioni utilizzate nel libro sono forti: informazioni come “cosmologia della contingenza” (Luhmann); “oblio dell’essere”; “de-narrativizzazione” (storytelling); selva oscura senza ancoraggi. È bene qui precisare la proiezione futura di una narrazione che rappresenta la comunità ma presuppone anche una sua trasformazione, laddove l’attuale informazione senza racconto significa piuttosto una “patologia del presente”. Le citazioni sono affidate a: Luhmann; Benjamin; Erodoto e l’arte del racconto; Sartre e la noia; Büchner (oggi siamo marionette tenute insieme da un filo di forze sconosciute), Nietzsche e il procedere con passo narrativo.

Nelle storie c’è il saggio che racconta, e sul modello di Erodoto dà insegnamenti senza indicarli, senza promettere soluzioni ai problemi. Narrare è dentro un contesto di vita vissuta, come espressione di saggezza: se non c’è narrazione la vita diventa una “tecnica di problem solving” che fa volgere al tramonto la trasmissione e l’esperienza del racconto. La vita diventa “nuda vita”, solo sopravvivenza. Benjamin parlava del “nuovo barbaro” che, celebrando la povertà di esperienza, intende rivolgersi al “nudo uomo nuovo del nostro tempo” che vuole comunicare da capo senza conoscere ciò che è stato.

In Byung-Chul Han c’è un riferimento a Proust e alla recherche del tempo, che poi riconnette ad Heidegger e all’atrofia che caratterizza la modernità. È importante la continuità, l’asse temporale che protegge contro la frammentazione, e direi la capacità di affrontare l’esistenza umana che non nega la morte ma produce una storicità autentica.

Le attuali forme narrative sono fotografie che durano un istante, dove conta solo il momento, quello della temporalità digitale: sono successioni di registrazioni momentanee che non raccontano nulla, definite: phono sapiens. Le riflessioni non sono accettate, tutto è trasformato in registro e lo smartphone è una sorta di panopticon digitale.

Il racconto al contrario richiede riflessioni rispetto al vissuto; i dati attuali sono generati a prescindere da coscienza, riflessione e interpretazione. Il ricordo non è meccanica ripetizione del vissuto ma una ri-narrazione; i ricordi sono lacunosi e presuppongono vicinanza e lentezza; chi vuole raccontare qualcosa deve poter dimenticare e tralasciare alcune informazioni.

Torniamo a Sartre. Antoine Roquentin è posseduto dalla nausea, il presente delle cose, la contingenza di un mondo nudo e privo di significato. È il racconto che gli farà apparire la realtà dotata di senso, perché un uomo è un narratore di storie e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse. Il racconto permette alla nuda vita di elevarsi: ogni cosa entra in un ordine che permette di superare la “pura fattività”. Oggi c’è mancanza di fantasia narrativa, orizzonte narrativo che superiamo attraverso un incessante postare, condividere, mettere like. Al cospetto del vuoto interiore, l’io produce permanentemente se stesso e i selfie riproducono il sé nella sua forma vuota. Se l’uomo si occupa solo di cose spiegabili, non conosce l’importanza di narrare ciò che gli è accaduto riscoprendo l’incanto della reciprocità delle relazioni e delle intimità per ritrovare l’aura. Oggi il mondo si trova in un processo di crescente disincanto in cui “il fuoco mistico è stato spento da tempo” (Byung-Chul Han).

Che fare allora?

Al tempo di Lacan il mondo era “esperito come capace di rivolgerci lo sguardo”; oggi la distorsione narcisistica della percezione riduce lo sguardo, l’altro, e lo sostituisce con un’immagine immaginaria. Lo smartphone accelera il processo di espulsione dell’altro, facendoci ritornare al uno specchio infantile che sorregge un ego immaginario: il digitale destruttura il reale e sostituisce il simbolico (racconto da interpretare), i valori e le norme condivise, erode cioè la comunità. Sembra che i big data possano spiegare tutto, eppure non ci sono connessioni concettuali e tutto è risolto dicendo: “é così!”. L’Intelligenza Artificiale calcola e fa operazioni, ma non narra; la filosofia è forma narrativa e come mythos è rischio perché narra “una nuova forma di vita e dell’essere”. Ciò dimostra che il nuovo (ignoto) è affidato a nuove narrazioni che rendono possibili nuove percezioni.

Per Byung-Chul Han, il ripristino della prassi narrativa è la guarigione sociale che, insistendo attraverso il rito del narrare, permette di scegliere le tensioni e fa scorrere le cose. La malattia sociale è superabile con il racconto sul modello di Benjamin, così come il blocco della storia della persona (Freud) riesce a trovare senso con l’azione di Arendt (fantasia narrativa curativa) e i contatti fisici con forza narrativa. È da porre al centro la comunità che ha in sé il senso e il mito, dove il racconto è un orientamento, un sostegno, un superamento, perché narrando l’essere umano realizza nuove forme di vita.

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