Disfunzioni educative
di PASQUALE SCALDAFERRI
lla vigilia del 25 novembre, con un 2024 che ha già fatto registrare poco meno di 100 femminicidi, sarebbe plausibile riavvolgere il nastro delle ultime drammatiche settimane e provare a riordinare l’ondata di commenti, prese di posizione, vera indignazione, proposte serie, separandole dalle farneticanti affermazioni dei retori imbolsiti, bigotti reazionari e sedicenti educatori di un modus operandi tanto al chilo, che intervengono spesso a sproposito sulla terribile sequela di femminicidi.
Ognuno ha provato a sforzarsi di dispensare un ricetta congrua nell’adottare metodi e comportamenti che producano idonei processi educativi.
Il primo baluardo contro la violenza è da ricercare nella famiglia, oggi frantumata, vilipesa e spesso saccheggiata delle sue prerogative pedagogiche.
Quando al ruolo centrale del nucleo famigliare si intendono surrogare altri comparti, fornire indicazioni per nulla inequivoche, luoghi comuni inossidabili, funzioni gerarchice consolidate, affermazioni deliranti, comportamenti ambigui che sollecitano e alimentano la crescita di soprusi, facendo germogliare i più biechi abusi, generando infami, ignobili, delittuose sopraffazioni, è l’intera società a fallire. Miseramente e senza attenuante alcuna.
In Italia il consuntivo della mattanza è rabbrividente, con una media di 150 femminicidi all’anno: 157 nel 2012, 179 nel 2013, 152 nel 2014, 141 nel 2015, 145 nel 2016. Negli ultimi quattro anni, circa 600 donne sono state ammazzate.
Dal 2000 a oggi sono 3230, di cui 2355 in ambito familiare e 1564 per mano del proprio coniuge o ex partner.
Negli ultimi due anni 226 donne hanno perso la vita per la violenza omicida di uomini malati e possessivi (106 nel 2022 e 120 bel 2023). E il 2022 ha fatto registrare il record di femminicidi nel mondo: 89mila donne uccise.
Il 2018 ha rappresentato l’annus horribilis in cui è stato raggiunto il dato più alto mai censito in Italia: 142 assassinii.
Migliaia nel mondo sono state le donne soppresse con una brutalità inaudita: un autentico genocidio.
Ecco perché ha ragione Giada Bonizio, la studentessa dell’università L’Orientale di Napoli che con la collega dell’ateneo di Pavia, Roberta Del Medico, ha realizzato uno straordinario e “silenzioso” cortometraggio contro la violenza di genere.
“Non basta un singolo giorno del calendario, come non è abbastanza il solo ricordare -è il monito di Giada- il nostro compito è imparare dal passato affinché non si ripeta mai più e renderci parte attiva del cambiamento; il momento di agire è adesso, ogni giorno, non solo il 25 novembre”.
Quasi la metà delle donne viene uccisa dal fidanzato o dall’ex marito. Ma dopo le emozioni di circostanza, le commemorazioni e i cortei alimentati dalle onde emozionali, scivola tutto nuovamente nell’oblìo. Occorre ragionare e operare, senza lasciarsi sedurre dalla tentazione di apparire, piuttosto che essere.
In prima linea contro queste criminali esecuzioni ci deve essere la scuola. Ma questo potrà avvenire soltanto se si avrà la forza e la consapevolezza di creare una linea di demarcazione e imprimere l’efficace differenza abissale tra chi pensa, ragiona e agisce e l’effimera politica nozionista, qualunquista, infarcita di vuota retorica e visione populista del governo Meloni. Iniziando dal ministero della Cultura e dell’Istruzione.
Il vessillifero padano, per dare tono e sostanza al suo dicastero ha associato alla denominazione comune, Ministero dell’Istruzione, anche il termine del Merito, autentico autocompiacimento e stucchevole autoreferenzialità che dissimula il vuoto di idee, di progetti e di pensiero, senza “assicurare alle scuole infrastrutture e dotazioni di qualità, valorizzare gli operatori scolastici, sintonizzarsi con il mondo del lavoro, agire sulle competenze, fornire a tutti gli strumenti per sviluppare un percorso di crescita individuale e collettiva” – come si leggeva nel manifesto delle (fallite) intenzioni del titolare del ministero di Viale Trastevere 76/A – Roma.
Giuseppe Valditara – nel 2022 consigliere politico del segretario federale della Lega, Matteo Salvini e già nel 2010 coordinatore regionale in Lombardia dell’impalpabile Futuro e Libertà per l’Italia di Gianfranco Fini e Italo Bocchino – ha relegato (insieme con gli illuminati consulenti ministeriali come Alessandro Amadori, docente alla Cattolica di Milano e scelto come coordinatore del progetto Educare alle relazioni, finito nel mirino della critica per alcune affermazioni sessiste contenute nel libro scritto a quattro mani con il suo demiurgo) la scuola italiana in un laboratorio di corsi permanenti di formazione e aggiornamento, depauperando e svilendo le qualità infinite e non sempre valorizzate del corpo docente, ormai ridotto a un ruolo subalterno, offendendone e calpestandone la cultura, la dedizione, lo spirito di sacrificio, la vocazione all’insegnamento, il coraggio delle scelte, l’entusiasmo mai sopito -ad onta degli astanti dirigenti- nell’espletamento della missione di educatori. Non contento di tutto ciò, si è anche reso protagonista di un ignobile intervento durante la presentazione della fondazione “Giulia Cecchettin”, sollevando lo sdegno generale e la risposta indignata della sorella che lo ha accusato di “propaganda”.
Soltanto un lavoro sinergico famiglia-scuola potrà sancire la svolta determinante e ricondurre quest’epoca raccapricciante nell’alveo della civiltà.
Il video silenzioso e assordante delle due studentesse meridionali, esorta al cambiamento e incita a una rivoluzione culturale. Ma solo con l’intervento deciso e non di facciata delle istituzioni repubblicane si potrà parlare di svolta epocale.
Viceversa, se la stagione dell’inquietudine e del dolore non cesserà, coloro che avranno avuto ruoli di responsabilità decisionali, senza lo straccio di un’azione incisiva, saranno ricordati solo per averci condotto a traguardi inenarrabili, in cui il (de)merito è la cartina al tornasole della più totale inadeguatezza al ruolo.
O forse, fino in fondo, intendono sbandierare – urbi et orbi – quanto siano stati fedeli interpreti e studiosi indefessi del principio illuminante del grande psicologo canadese, Laurence Peter: <<In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza>>.