23 Novembre 2024

di Gaetano Barbella

Gaetano Barbella invia uno scritto (che pubblico di seguito) in cui considera la figura di Dante Alighieri attraverso una “nuova immaterialità”. L’immateriale (senza materiale) è l’antitesi di materia, sostanza; è anche l’ingegno, la capacità e l’abilità di una persona; “l’immateriale deve poter vivere nella materialità”.


La mente umana non ha mai cessato di vedere ricostituito, ma erroneamente, nella carne terrena l’ideale “Regno” lasciato intravedere da Gesù attraverso gli evangeli.

Un ideale Re per raddrizzare le vie contorte dell’opera umana insana, come fu per il sommo poeta Dante Alighieri, con l’immaginario «Veltro», un essere umano quasi trascendentale.

Virgilio dichiara che la lupa-cupidigia continuerà a regnare fra gli uomini fino all’avvento del Veltro, un provvidenziale liberatore.

Dante definisce il “Veltro” con un linguaggio volutamente ambiguo: per non schierarsi con i

sostenitori dell’Impero o del papato o di un particolare del particolare del Battistero di Parma, da personaggio specifico, lascia nell’ombra le caratteristiche del liberatore, centrando la sua attenzione sulla certezza che, in un modo o nell’altro, Dio sarebbe intervenuto a rimettere ordine nel mondo. Ed ecco l’erronea chimera che solo in un altro mondo si può risolvere, quello indicato dal Cristo, il suo.

Di qui l’identificazione del Veltro è controversa: sono stati proposti vari nomi di uomini politici, fra cui Enrico (Arrigo VII) di Lussemburgo, Cangrande della Scala, Uguccione della Faggiola, ma per nessuno vi sono riscontri certi. Similmente incerta è l’identificazione con un personaggio di ambiente ecclesiastico.

È stata la sorte a decidere allora?, e noi non sapremo mai con quale esito, non riscontrando dalla storia una risposta conciliante con l’enigma seppellito, di certo, nella Divina Commedia dantesca, per giunta a sua insaputa. Chissà sognava di conoscere questa “terra promessa”, come fu per Mosè, e morì senza nemmeno saperlo, magari in sogno. Dante era troppo appesantito dai vincoli terreni ed era un peso enorme da sollevare da parte della sua Beatrice celestiale: un’alchimia impossibile[1].

E tutto a causa di esistere nella carne e battersi per così modellarla anche per tutti gli uomini con la realizzazione di un “regno” ideale, che però poteva esistere solo in un altro mondo, e Gesù lo fece capire chiaramente, con la promessa del corpo della resurrezione.

Il Messo di DIO

Tuttavia la sorte dovette volere fortemente l’avvento del “Messo di Dio” immaginato da Dante, anche se troppo imbevuto di Zolfo alchemico di quegl’ideali “Re” o “Imperatori” che roteavano nella sua mente turbinosa.

Nel XXXIII canto del Purgatorio (vv. 40-44) Dante, per bocca di Beatrice, fa una delle sue profezie:

«Ch’io veggo certamente, e però il narro

a darne tempo già stelle propinque

secure d’ogne intoppo e d’onge sbarro

nel quale un cinquecento diece e cinque

Messo di Dio, anciderà la fuja

con quel gigante che con lei delinque.»

Dove sappiamo la fuja – ladra – essere per il poeta il papato, e il gigante il regno di Francia.

La prima ipotesi è che Dante, amando tanto Virgilio, abbia voluto emulare in qualche modo la profezia della IV Egolga (citata da Dante stesso in Purgatorio XXII, vv. 70-72).

Altra ipotesi è che il Messo sia il Veltro, nominato nel I canto dell’Inferno anche se è presumibile che, se Dante avesse voluto intendere la stessa persona, l’avrebbe evocata di nuovo col primo appellativo, “veltro” appunto.».

Ma questo Dante non poteva saperlo, e così la decisione sui numeri danteschi sono messi nelle mani di un bambino, ed è questo presumibilmente il Messo di Dio, il quale ha ragionato in questo modo:

Prima d’altro ha considerato la Divina Commedia come un insieme di versi senza fare alcuna distinzione di raggruppamenti di cantiche, tanto meno di luoghi d’espiazione o di piacere, lasciando, però, invariato l’ordine iniziale. Prima lezione ‒ ha pensato ‒ si è tutti uguali davanti a Dio, compreso il Paradiso, il Purgatorio e l’Inferno!

Ciò premesso ha proseguito in questo modo senza dare torto al suo autore Dante Alighieri nel modo come ha esposto i vari versi, uno di fila all’altro:

– Primo: «cinquecento» sta per il 500° verso che corrisponde al seguente verso 86 del IV canto dell’Inferno: «Mira colui con quella spada in mano».

– Secondo: «cinquecento diece» sta per il 510° verso che corrisponde al seguente verso 96 dello stesso canto precedente: «che sovra li altri com’aquila vola».

– Terzo, infine: «cinquecento diece e cinque» sta per il 5105° verso che corrisponde al seguente verso 116 del III canto del Purgatorio: «de l’onor di Cicilia e d’Aragona».

E poi, mettendo insieme i tre versi ha così decriptato l’emblematico “DUX” dantesco formando la seguente terzina:

«Mira colui con quella spada in mano,

che sovra li altri com’aquila vola,

de l’onor di Cicilia e d’Aragona.»

È comprensibile altresì che «il Messo di Dio», non può avere una comune «spada in mano», così come è stata sempre intesa quale strumento di morte. E allora non può che essere una prodigiosa leva come quella della ragione, per esempio, giacché si vuole il Messo di Dio quisitamente «geometra». Ecco cosa trapela dai tre versi danteschi in perfetta coerenza della giusta spada in mano al Messo di Dio.

Il passo è breve per individuare chi la brandeggia, uno di statura ciclopica, proprio in stretta relazione alla parola «Cicilia» riconosciuta come Sicilia, il siracusano Archimede famoso per il suo motto: «Datemi una leva e smoverò la terra». In questa chiave, risulta chiara l’allusione alla «mente» (Par. XXXIII, 139), la cui leva argomentata, la ragione, è disponibile a tutti gli uomini senza distinzioni, in chi più in altri meno.

A questo punto sembra naturale e sacrosanto, allora, lo scopo dell’uomo nell’accingersi a concepire «l’onor di Cicilia» in modo da predisporre questa “casa“, all’umano intelletto, perché vi possa entrare la giusta Sapienza che è: «La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più o meno altrove» (Par. I, 1-3).

Cos’altro ci sfugge con la localizzazione del Messo di Dio quale ideale «geometra »? Ci suggerisce velatamente che le cose di Dio vanno “misurate“. Iddio è un matematico prima di altro.

Infatti nell’Apocalisse di Giovanni 11,1-2 viene chiesto a Giovanni di misurare il tempio:

«Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: «Àlzati e misura il tempio di Dio e l’altare e il numero di quelli che in esso stanno adorando. Ma l’atrio, che è fuori dal tempio, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi.»

In conclusione la commedia di Dante Alighieri, col suo Messo di Dio, ci da la risposta che è un matematico, non che sia veramente Archimede perché è indicato per confermare. E siamo alla conclusione del mio articolo Osservare il Margine:

La visione di questa opera xerigrafica di Albrecht Dürer di tanti ani fa, 700 circa, forse ci indica la nuova via da prendere, qualcosa che somiglia all’alchimia, ma è un’idea balzana perché è ben più che rivolgersi al cristianesimo, molto di più, riservato solo a pochi. Allora una nuova scienza, superiore a quella attuale piuttosto all’avanguardia? Infatti la foto della Meridiana Grande e anche quella della chirurgia estetica di bellezza sembra che lo faccia capire.

E siamo ancora ad un punto di partenza, un tantino più oltre come ad essere riusciti a forzare l’uscio, ma occorre spingere forte…

[1]Alessio Benassi. https://www.circolodantealighieri.com/il-balzo-del-veltro/aimone-e-la-profezia-di-padre-pio.

Gaetano Barbella

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