25 Novembre 2024

“Il Taccuino di Baudelaire” del 25 novembre 2024 di Giovanni Farzati

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Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo.
(Alberto Moravia, orazione durante i funerali di PP Pasolini)

Rubrica “Il Taccuino di Baudelaire” di Giovanni Farzati

Raccontare il proprio paese e la quotidianità. (Sciascia)

Il malocchio di Abat.
Bastava un piatto con acqua dentro e un cucchiaio con dell’ olio d’oliva; non c’erano formule strane da recitare, bastava farsi il segno della Croce per 3 volte, poi 3 volte sull’ acqua e 3 volte sull’ olio, non era necessaria la presenza della vittima del malocchio.
Si intingeva d’olio un dito, in genere l’ indice, e si lasciava cadere alcune gocce d’ olio, sull’acqua, sempre in numero dispari, 5 o 7; si  osservava cosa facevano le gocce sull’acqua; a volte capitava che alcune si disperdevano appena toccavano acqua, in questo caso l’occhio era fortissimo.
Altre volte alcune gocce si isolavano dalle altre e un po’ alla volta di allargavamo o di allungavano; il malocchio in questo caso era ancora molto forte; quelle che si isolavano rappresentavano i malfattori che avevano colpito col maleficio il povero malcapitato.
A questo punto si immergevano le dita nell’ acqua facendo il segno della Croce e si scrollavano in direzione dell’ammalicchiato colpendolo con gocce d’acqua.Si osservava infine la forma presa dalle gocce d’acqua dopo il segno della Croce: se erano molto allungate il colpevole o i colpevoli erano donne.
Le gocce non rimanevano intere ma si frantumavano, quindi il malocchio non era stato spezzato. Si ripeteva per tre volte, sempre cambiando acqua e risciacquando bene il piatto.  Il malocchio si riteneva spezzato quando le gocce d’olio avevano un comportamento normale galleggiando sull’acqua e non si allungavano o si dissolvevano facendo il segno della Croce nell’ acqua. Se il malocchio era davvero forte a volte capitava che neanche alla terza volta si spezzava.
Quindi in tal caso bisognava cambiare operatore e procedere nuovamente.
Quello che faceva Leopoldina, una donna di Camella; vissuta nel 900;   era più complesso e non si è mai saputo la formula che recitava; usava oggetti da punta e taglio e grosse chiavi di portoni antichi.

Il paradiso del poeta è la sua poesia cit

I  quattro poeti maledetti

Franco Costabile, il poeta di Calabria.
Ermetico tra gli ermetici, Franco Costabile (1924-1965) utilizza la sua dote formale per devolverla nel riscatto della sua terra (la Calabria), degli umili, degli sconfitti dalla vita, sconfitto egli stesso (muore suicida a 40 anni). Amato dal vecchio Ungaretti e da Caproni, Costabile ha uno stile limpido ai limiti di una ingenuità che però non si corrompe mai banalizzandosi. La frammentazione dei versi, tipica della sua poesia, ricorda il primo Ungaretti ma da lui si discosta per il rifiuto di un discorso monologico preferendo invece un perenne dialogo con un “tu” che assolve l’io dal suo dramma, o almeno tenta di farlo.
Essere davvero poeti é una grossa responsabilità. Le persone non dovrebbero scrivere poesie, dovrebbero essere poeti. La poesia non è una corsa, dove quello che importa é arrivare primi. La poesia é una lotta contro il nostro nemico naturale, il tempo, e anche un tentativo di integrarci alla morte, della quale avvertiamo la presenza giá da bambini. Non m’interessa parlare di poesia preferisco parlare col mio gatto o con il panettiere. Imparo di più e mi annoio meno. Non m’interessa diventare un personaggio perché quando ti vedono cosí, la tua poesia passa in secondo piano. Non m’interessa se scrivi o non scrivi.
Non m’interessa la poesia soltanto come un fatto estetico, deve essere anche etico. Uno dei modi di cambiare il mondo (forse l’unico) è cambiare noi stessi. Non importa essere buoni o cattivi poeti, ma trasformarci in poeti, lottare contro l’universo in pieno disfacimento, non accettare i valori che non ci appaiono poetici.


A nulla serve scrivere testi poetici se siamo individui antipoetici.
La poesia di Raymond Carver è cruda, profonda, malinconica. Leggere i suoi versi è fermare il tempo per meditare sulla condizione di un’umanità negletta; come ammirare le pitture di Edward Hopper osservando i personaggi che in esse compaiono e scoprirne lo stato d’animo;
Come stare affacciati a una finestra, spettatori di ciò che succede nei sottani o nelle strade di un quartiere popolare, oppure seduti sul gradino più alto di uno scalone d’ingresso a fumare oziosamente osservando in assorta contemplazione ognuno dei piccoli eventi che si verificano sotto i vostri occhi e tutto ciò che avviene in uno spazio più o meno ristretto in un tempo più o meno breve.
Leggere le poesie di Carver è, ancora, come concentrare l’attenzione su quella grande moltitudine di accadimenti minuti che non di rado passano inosservati, soprattutto su quelli, perché i personaggi di Carver si muovono dentro quadretti di piatta quotidianità, di cose semplici, di elementare gestualità, ovvi, spesso, almeno in apparenza, banali, tutti con un denominatore comune di dolore e di mestizia
(da sololibri.net)

Mary aveva deciso di vivere di scrittura
Figura stravagante e straziata della poesia americana, Mary Carolyn Davies nasce nel 1888 a Sprague, Washington, studia a Portland, nel 1911 la vediamo a Berkeley. Il talento poetico trova precoci riconoscimenti: è la prima ragazza a vincere un paio di premi letterari banditi da Berkeley. Tuttavia, la vita universitaria non la conquista e poco dopo sbarca a New York, decisa a vivere di scrittura. Pare sia tenace, indomita: entra nei club di Greenwich, conosce Marianne Moore e Duchamp, è adorata da Kreymborg che ne fa una delle collaboratrici più assidue di “Others”. I suoi primi libri in versi, The Drums on our Street: A Book of War Poems (1918), Youth Riding (1919) e The Skyline Trail: A Book of Western Verse (1924), vengono paragonati a quelli di Edna St. Vincent Millay. I versi per bambini sono accolti in importanti antologie del tempo; nel 1921 pubblica il suo unico romanzo, The Husband Tes.
Qualcosa, però, resta evidentemente irrisolto: un tarlo, la tenia del disgusto, un’affabile afflizione. Nel 1918 divorzia dal marito, Leland Davis; negli anni Venti torna a Portland dove, tra l’altro, diventa presidente della Northwest Poetry Society. Alcune rare fotografie del 1936 la vedono di fianco a un cavallo, in un bosco; è magra, minuta, sorride. Il ritorno a New York è devastante. Mary Carloyn Davies scompare dalla vita pubblica quasi subito. Non pubblica più, non frequenta più nessuno. Alcuni amici hanno detto di una malattia, che la inibiva a spostarsi; hanno detto della cupa indigenza, di una solitudine che si fa palude ma non abbastanza pena.
Tutti, infine, mollano Mary Carolyn Davies, la promessa della poesia americana.
E lei, infine, infinitamente, scomparve. “Non esistono tracce della sua morte”, si limitano a scrivere i reperti biografici. La University of Oregon custodisce, in due scatole, i “Mary Carolyn Davies papers”: le poesie, una manciata di racconti manoscritti, una serie di atti unici, qualche fotografia, i taccuini, la smilza corrispondenza con gli editori.
Pare avesse tre fratelli, pare che qualcuno l’abbia messa al mondo, creatura di evanescenze e notti striate. Nessuno ha riscattato il corpo di Mary Carolyn Davies, in pochi ne ricordano il corpus. Estremità francescana, putredine della più pura povertà, veglia sulla cenere. Pare sia morta nel 1940, Mary Carolyn Davies: nessun giornale ne ha dato notizia, nessuna lapide la ricorda. Enigma che cuce le palpebre. Forse è stata scambiata per un’altra, e con il nome di un’altra sepolta, tra preghiere in ricamo, chissà dove. Mary Carolyn Davies è scomparsa, del corpo ha fatto un incorporeo monile.

Emanuel Carnevali
Il 1 gennaio 1940, Eleanor Copenhaver Anderson, nel suo diario, fotografa l’immagine del marito Sherwood che “scrive all’impazzata”. Lui scriveva come una furia, lei prende nota dalla sua maniacale frenesia
Aveva cominciato ad abbozzare un ritratto di John Emerson, poi bruscamente interrotto per dedicarsi alla stesura del racconto “Italian poet in America”, portato a compimento in una manciata di giorni. Il ritratto, stavolta, è dedicato al poeta Emanuel Carnevali. Sherwood aveva in mente di raccontare della figura di Carnevali.
Anderson lo conosce a Carnevali-  a Chicago alla fine degli anni Dieci e resta folgorato dallo spirito autodistruttivo dell’italiano. “Giacevo a letto, scrive Carnevali straordinariamente tetro, e un giorno mi venne a trovare Sherwood Anderson con la sua bellissima moglie; mi portarono della frutta, uno splendido pompelmo. Ricevere un regalo da un tale uomo mi sembrò una cosa sconvolgente e, con loro, mi stordii di chiacchiere. Ma per tutto il tempo che continuai a chiacchierare, mi accorsi che loro due non prestavano molto credito al mio strano modo di essere. Mi giudicavano melodrammatico, un commediante, sconveniente in tutto” – ricorda il poeta ne Il primo Dio.
Nel ritratto da lui tratteggiato, Anderson – come racconta Walter B. Rideout in Sherwood Anderson, A Writer in America, Volume 2 (Univ of Wisconsin Press, 2007) – lo dipinge come un uomo ossessionato dalla poesia e dalle donne, che al contempo attrae e spaventa, necessarie ai suoi sfoghi poetici e sessuali – “Sapevo che avrei potuto amare fino alla violenza, che avrei potuto stringere una donna fino a farle uscire l’anima”.
Ma a scuoterne le (poetiche viscere) è anche il feroce odio verso il padre – motivo nodale della sua fuga transoceanica. Solo l’amore di una donna, però, gli consente di sentirsi ‘un grande poeta’ – afferma. Afflitto dalla sifilide – assiduo frequentatore di case di piacere –, Carnevali s’ossessiona con la percezione di una morte prossima e l’idea che nella sua esigua esistenza “non avrebbe mai scritto la poesia perfetta”.
Nel folto di una notte vetrificata dalla neve, si presenta “malvestito” a casa Anderson e, mentre rifiuta l’offerta di un cappotto, corre a immergersi nella tempesta, fuori di sé, per poi essere rinvenuto in ginocchio, imbiancato, sulla soglia della casa dove lavorava la sua amante, gridando a Dio di salvare l’anima di entrambi. Viene così tradotto in ospedale, esonerandosi materialmente dalla vita dello scrittore americano, ma mai dalla sua memoria; Anderson si convince infatti che in questa “avventura” notturna, Carnevali abbia imbracciato “la via del suicidio”.

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