C’è silenzio nel vuoto
una notte a San Francisco
di Antonello Pelliccia
Vagavo per le strade di San Francisco, un fantasma nella nebbia che avvolgeva la città. Le luci al neon, offuscate dalla foschia, proiettavano ombre distorte sui muri, creando un labirinto di forme evanescenti. Il rumore del traffico si attenuava, lasciando spazio a un silenzio cupo, interrotto solo dal fruscio del vento tra gli edifici.
Mi sentivo come un naufrago su un’isola deserta, circondato da migliaia di anime solitarie. Ogni volto che incrociavo era una maschera, nascondendo un mondo interiore inesplorato. Mi avvicinai al lungomare, dove le onde si infrangevano sulle scogliere con un rumore sordo e monotono. L’odore di salsedine e delle fognature si mescolava nell’aria, creando un’atmosfera surreale.
Seduto su una panchina fredda, osservavo le luci della città scintillare all’orizzonte. Mi sentivo piccolo e insignificante, come una particella di polvere sospesa nell’universo. Pensavo al passato, ai sogni infranti, alle speranze perdute. Il futuro si presentava come un abisso oscuro, pieno di incognite.
Un senso di disorientamento mi avvolgeva. Ero come un sonnambulo, errando senza meta per le strade deserte. Il tempo sembrava dilatarsi, e ogni secondo durava un’eternità. Mi sentivo estraneo a me stesso, come se stessi osservando la mia vita da lontano, attraverso gli occhi di un estraneo.
Io, uomo solitario, camminavo tra le ombre, un’ombra tra le ombre. I passi echeggiavano nell’aria umida, un suono flebile che si perdeva nel rumore della città che dormiva. Intanto, da una finestra, una donna osservava la scena. Forse mi conosceva, ma in quel momento mi percepiva come uno straniero, un enigma avvolto nel mistero.
Passavo per le strade di San Francisco come un fantasma, lo sguardo perso nel vuoto. Un tempo, le parole scorrevano fluide dalla penna, dipingendo paesaggi emotivi sulla pagina bianca. Ora, il foglio rimaneva immacolato, un riflesso della mia anima inaridita. La città, con i suoi grattacieli che sfidavano le nuvole e le sue strade tortuose che si perdevano nella nebbia, era diventata un labirinto senza uscita. Ogni angolo sembrava nascondere un segreto, un indizio che potesse riaccendere la scintilla della creatività; più cercavo, più mi sentivo perso.
Questa sera le stelle non mi manderanno a dormire. Immerso nell’oscurità, mi sento come un naufrago su un’isola deserta. I grattacieli si ergono come sentinelle silenziose, scrutando l’abisso della mia anima. Seduto accanto alla cabina telefonica, osservo la città distendersi ai miei piedi, una distesa di luci che sembrano pulsare al ritmo dei miei pensieri confusi.
La ragazza, con la sua borsa Prada, è un’apparizione fugace in questo quadro di solitudine. La sua ansia mi risuona dentro, un’eco delle mie stesse paure. Mi sento estraneo al mondo, come un fantasma che vaga tra i vivi. La luna, pallida e implacabile, illumina le mie ferite, rivelando cicatrici che credevo dimenticate.
Mi sento un estraneo in questa città, un fantasma che vaga senza meta. Ogni respiro è un peso, ogni pensiero un labirinto senza uscita. Prigioniero dei miei stessi pensieri, cerco disperatamente un’ancora, un senso. Vorrei sfuggire a me stesso, a questo eterno presente. Ma la notte mi avvolge come una coperta, soffocandomi con la sua calma inquietante.
Potrei predicare all’infinito in un abisso senza fondo. Eternamente delirante, ho udito i sussurri del nulla. Qui, in questo vuoto palpabile, respiro la mia stessa non-esistenza.
L’ombra della città mi stringe, e nei vicoli oscuri si aggirano spettri più inquietanti degli uomini. I senzatetto, come scheletri animati, tendono le mani verso un cielo indifferente, cercando di afferrare una stella che si dilegua al loro tocco.
Una prostituta, spogliata della sua dignità, giace in un angolo, vittima di un mondo crudele. Un turista, assetato di piaceri proibiti, si aggira come un’ombra tra le ombre. E l’ubriaco, barcollando, urla al cielo le sue maledizioni, un eco dissonante nel concerto della disperazione. La sirena della polizia, un lamento stridulo, dissolve l’illusione di un attimo di follia.
Una muta di avvoltoi umani mi circonda, ridacchiando come iene. Occhi infossati, pelle pallida e stracci consunti: creature della notte, nate dalle fogne della città. Il più grosso, un colosso barcollante, mi fissa con occhi iniettati di sangue. La sua bocca, incrostata di birra, si apre in una smorfia che sembra più un ringhio che un sorriso. Sono come fantasmi, usciti dalle pagine di un incubo, eppure la loro presenza è terribilmente reale. Mi sentivo braccato, un topo in trappola, osservato da occhi che non conoscevano pietà.
Una mandria di anime perdute si era radunata sotto il ponte. Occhi iniettati di sangue mi scrutavano con un’espressione di crudele soddisfazione. Erano i rifiuti della società, creature della notte, e sembravano trovare un macabro piacere nel tormentare chi era ancora più sfortunato di loro.
Un cadavere ceruleo, seduto a un banchetto celeste, alza un boccale spumeggiante alla luce della luna. Una risata mi sfuggì, amara e folle. “Sei uscito dalle pagine di un racconto di Lovecraft”, borbottai, l’eco della mia voce persa nel vuoto. Poi, rivolgendomi al cadavere, gridai: “Vecchia carcassa, ti sei tinto di blu per farti più inquietante?”.
Alzo gli occhi verso il cielo, dove una colonia di pipistrelli, simili a demoni alati, volteggia in un macabro balletto. Le loro ali membranose battono l’aria con un suono stridente, come unghie che graffiano una lavagna. Mi sentivo come un intruso in un mondo parallelo, un mondo dove la morte danzava con la follia.
Un cane, scheletrico e affamato, perlustrava i cumuli di immondizia, i suoi occhi gialli scintillando di una rabbia muta. Si fermò, il muso puntato verso il cielo, ululando alla luna come un lupo solitario. Il suo ululato mi gelò il sangue, un lamento straziante che risuonò nella notte. Mi avvicinai cautamente, il suo sguardo fisso sul mio. Nel riflesso di una pozzanghera, vidi il mio volto, stranamente distorto, sovrapporsi al suo. Con un balzo felino, il cane scomparve nell’oscurità, lasciandomi solo con il suo ululato che si dissolse nel silenzio.
Mi diressi a sud, verso il cuore oscuro della città. I miei passi echeggiavano con un suono cupo, come il battito di un cuore malato. La pioggia aveva lavato le strade, lasciando dietro di sé un lucido manto di asfalto che rifletteva i lampioni come occhi gialli e maligni. Mi sentivo un vagabondo, un naufrago in un mare di cemento.
L’ombra mi seguiva, un compagno fedele e oscuro. Mi rifugiai in essa, come un mollusco nella sua conchiglia. Il mondo, con le sue luci e i suoi rumori, mi sembrava un sogno confuso, un’illusione. Solo la luna, impassibile testimone, offriva un barlume di certezza. Eppure, la sua luce fredda non riusciva a scaldare il mio cuore. Mi sentivo come un atomo sospeso nel vuoto, alla deriva in un universo indifferente.
Sud, sud, sempre più a sud. I miei passi, un ritmo ossessionante sul selciato bagnato, un mantra ripetuto all’infinito. La mano nella tasca, un talismano contro il mondo. Il cappello, un ombrello contro i pensieri, mi trasformava in un cowboy solitario, un vagabondo senza meta. L’asfalto si stendeva davanti a me, una strada infinita, un nastro grigio che mi portava verso l’ignoto. Ero un atomo in movimento, una particella di polvere sospesa nell’aria. E in quel movimento, in quella continua ricerca, trovavo una strana pace.
Sotto quel cielo di velluto, l’erba profumava di pioggia. Un uomo, solitario e silenzioso, tracciava segni su un foglio. La sua figura, controluce, sembrava un’ombra che danzava tra i fiori di pruno. Osservavo, rapito. I suoi occhi, fissi sul panorama, erano pieni di una malinconica bellezza. Stava disegnando la baia, con le sue onde che si infrangevano sulle rocce, e i gabbiani che volteggiavano in cielo. In ogni tratto, sentivo la sua anima fondersi con la natura.
A pezzi. Frammenti di me stesso, sparsi nella notte. La luna, un occhio freddo, mi osserva. Voglio gridare, urlare al mondo, ma le parole muoiono in gola. Il tempo, un fiume in piena, mi trascina via. Dove sto andando? Chi sono?
Sotto il cielo stellato, mi sento piccolo, insignificante. Un granello di sabbia in un universo infinito. Eppure, c’è una fiamma dentro di me, una scintilla di speranza. Cerco un segno, un indizio, qualcosa che mi dia un senso. Ma il silenzio è assordante.
La città dorme, ma io sono sveglio. Vagabondo senza meta, cerco un rifugio in questa notte fredda. La stazione, con le sue luci gialle e le sue ombre lunghe, mi attira come una falena. Forse lì troverò le risposte che cerco…