“La voce dal deserto che chiede democrazia alla ‘nuova’ Siria. Il priore del monastero di Mar Musa al-Habashi Jihad Youssef, scrive al presidente Ahmad al-Sharaa”
di Davide Romano, giornalista
Non capita tutti i giorni che un monaco scriva al presidente. Ancora più raro è che lo faccia in Siria, dove per mezzo secolo parlare ai potenti significava rischiare la pelle. Ma Jihad Youssef, priore del monastero di Mar Musa al-Habashi, ha deciso di rompere il silenzio. Lo ha fatto con una lettera che è insieme un atto di speranza e un monito, indirizzata al nuovo presidente Ahmad al-Sharaa.
Il monastero da cui scrive non è un posto qualunque. Arroccato su una collina che domina il deserto siriano, a Nebek, Mar Musa era diventato negli anni Novanta un simbolo di quel che la Siria avrebbe potuto essere. Lo fondò nel 1992 un gesuita italiano, Paolo Dall’Oglio, uno di quei preti scomodi che non si accontentano di predicare dal pulpito. Dall’Oglio aveva un sogno che sembrava follia: creare un luogo dove cristianesimo e islam potessero dialogare da pari. Si definiva “innamorato dell’Islam e credente in Gesù” – una formula che ai puristi di entrambe le sponde faceva venire l’orticaria.
La guerra ha spazzato via anche questo sogno. Prima l’espulsione di Dall’Oglio nel 2012, colpevole di aver chiesto una soluzione pacifica al conflitto. Poi la sua scomparsa nel 2013 a Raqqa, mentre tentava di salvare degli ostaggi dalle grinfie dello Stato Islamico. Il monastero è diventato campo di battaglia, ma un piccolo gruppo di monaci è rimasto, testardo come solo la fede sa essere.
Ed eccoci a questa lettera, che inizia con parole che fanno tremare i polsi: “Ringrazio Dio per la benedizione della libertà e per il fatto che, per la prima volta, posso scrivere queste parole senza temere di essere arrestato, ucciso o che qualcuno si accanisca contro la mia famiglia o i miei amici”. È la prima volta in mezzo secolo che un siriano può scrivere così al suo presidente. Ma Youssef non si accontenta di ringraziare.
Al nuovo presidente ricorda che il potere è servizio, non dominio. Lo fa citando il Vangelo – “Voi mi chiamate Maestro e Signore, ma io sono in mezzo a voi come colui che serve” – ma potrebbe citare qualsiasi libro sacro. È una verità che i potenti dimenticano troppo spesso, soprattutto in questa parte del mondo.
Poi viene la parte più dura. Youssef parla di giustizia, ma non quella delle vendette sommarie che stanno insanguinando il paese. “Questa giustizia”, scrive, “non può basarsi sulla vendetta e sull’eliminazione fisica degli avversari senza processo. Non può essere considerata giustizia se viene esercitata con violenza e con gli stessi metodi di arresto e detenzione adottati per decenni dal regime terroristico, ingiusto e disumano di Assad”.
È un monaco che parla di diritti umani, di processi equi, di dignità persino per i criminali. “L’avversario rimane un essere umano”, insiste, “per quanto abbia cercato di deturpare la propria umanità con le sue azioni malvagie”. E aggiunge: “Il popolo siriano ha il diritto di conoscere i nomi dei criminali e i loro crimini, i nomi delle loro vittime e di rivolgere loro accuse davanti alla giustizia”. Non vendetta, dunque, ma verità e giustizia.
Ma è quando tocca il tema della democrazia che la lettera diventa affilata come una lama. Al presidente che parla di “patria” e di “unità tra popolo e leadership”, Youssef risponde: “Avrei voluto sentirti parlare di cittadinanza… sarebbe stato prezioso se avessi menzionato la democrazia”. Sono le due parole che mancano nel discorso presidenziale, e non è un caso. La cittadinanza implica diritti, la democrazia implica controllo del potere. Due concetti che in Siria suonano ancora rivoluzionari.
“La cittadinanza e la democrazia”, insiste il monaco, “sono le due garanzie per costruire il futuro con libertà e dignità”. Senza di esse, avverte, si finisce inevitabilmente nell’”esclusione o emarginazione di una parte della popolazione a vantaggio di un’altra o di un’élite dominante”. È la storia della Siria degli ultimi cinquant’anni, raccontata in una frase.
La lettera si chiude con una preghiera che sa di profezia: “Dio protegga il popolo siriano dall’orgoglio, dall’odio, dalla sete di potere e di dominio”. Ma è quel che segue a colpire: la visione di “una Siria di libertà, progresso, conoscenza e civiltà, una Siria faro dei popoli, esempio di diversità e ricchezza umana, religiosa, etnica, linguistica e culturale”.
È il sogno di Dall’Oglio che ritorna, attraverso le parole del suo successore. Un sogno che sembrava morto sotto le bombe e che invece continua a vivere tra le pietre del monastero nel deserto. Non sappiamo se il presidente al-Sharaa leggerà mai questa lettera. Ma sappiamo che dalle rovine di Mar Musa si è levata una voce che parla di un futuro diverso. In un paese dove per mezzo secolo il futuro è stato sequestrato da una famiglia e dal suo clan, non è poco