Guerre infinite

Putin, Trump e i valvassini dell’Ue

PASQUALE SCALDAFERRI
Le terribili scene dell’invasione russa in Ucraina, che da giovedì 24 febbraio 2022 hanno fatto precipitare il mondo nel terrore con conseguenze ancor più devastanti dei conflitti registrati negli ultimi anni, provocano da oltre mille giorni angoscia, sgomento, ripugnanza e un senso di impotenza collettiva, davanti alla follia di Vladimir Putin e del suo ministro degli Esteri, Sergej Lavrov.

Lo scudiero e fedelissimo del capo del Cremlino ha da subito minacciato -senza perifrasi- la guerra nucleare, se il conflitto si fosse esteso oltre i confini dell’Ucraina.
Un chiaro e inequivoco ultimatum alla Nato, ma anche all’Unione europea, ad agire con cautela e non interferire nel regolamento di conti partito da Mosca.
D’altronde, la raccapricciante tattica planetaria di Putin si può sintetizzare nel vecchio e mai desueto mantra, più che una formula sacra, un autentico inno alla sua malata personalità: «La strada a Leningrado, cinquant’anni fa, mi ha insegnato una lezione: se la rissa è inevitabile, colpisci per primo».
L’uomo di San Pietroburgo, nato 72 anni fa nella ex Stalingrado da famiglia di operai, con padre comunista modello e madre devota credente ortodossa, è stato agevolato nella sua carriera proprio dall’acquiescenza di quel mondo occidentale che intende sopprimere, dopo aver incrementato su un vischioso piano diplomatico le relazioni con Cina e India.
COLPE DELL’OCCIDENTE – L’ignavia delle cancellerie internazionali, la genuflessione di capi di Stato e di governo, mai risoluti nel contrastare l’ascesa dell’ex tenente colonnello del KGB e braccio armato dell’Agenzia di intelligence che nel 1991 appoggiò Boris Eltsin nel fallito golpe per rovesciare Mikhail Gorbaciov, sono la causa principale del potere onnivoro dello zar del XXI secolo.
Arretramento democratico, annientamento dei diritti civili e dittatura di idee e di azioni hanno rappresentato il modus operandi di Putin e neppure i più affermati analisti si sono mai cimentati nell’impresa temeraria ma reale di chiamare con il vero nome di dittatura, quella che con un termine edulcorato, ma improvvido, è stata ribattezzata federazione russa.
Quando il criminale del Cremlino faceva uccidere giornalisti o oppositori, imbavagliava il dissenso, dopo un principio di generale disappunto (più di facciata che concreto), ad intermittenza sopraggiungevano i distinguo e anche qualche strabico e inetto americano continuava ad adularlo, immemore del ruolo strategico che il despota aveva ricoperto ai tempi della sanguinaria Unione Sovietica.
Anche il grido d’allarme lanciato 21 anni fa da Gorbaciov (morto proprio nell’anno di inizio della guerra, il 30 agosto) sui pericoli immanenti di allontanarsi dalla via democratica, non solo scivolava nell’oblìo, ma veniva addirittura minimizzato, derubricando il j’accuse del padre della glasnost e artefice della perestrojka a una denuncia destituita di fondamento.
Anzi, nel 2000 tra le altre aberrazioni -e sempre in ossequio al consenso- Putin approvava la legge modificativa dell’inno, riproponendo musica e testo di quello sovietico.
SCENDILETTO E MARIONETTE – Il glaciale inquilino del Cremlino ha capito subito quali erano i nani che governavano su scala mondiale, iniziando a frequentare il gotha della finanza e stringendo mani a evanescenti capi di Stato (Clinton), cowboy in doppiopetto (George W. Bush) guerriglieri circensi (Gheddafi), marionette prestate alla politica e pirotecnici parvenu approdati nelle stanze dei bottoni.
Sul fronte interno ha riscritto la costituzione, diventata liberticida, speculando -come accade sempre nelle dittature- sull’orgoglio popolare e sulle ricchezze (per pochi) effimere.
Anche i parrucconi dello sport hanno contribuito a rafforzarne il potere insanguinato, concedendogli l’organizzazione del Mondiale di calcio del 2018, Gran premi di automobilismo e i Giochi Olimpici Invernali di sci nel 2014 a Sochi.
Eventi che corroborano il culto della personalità e annientano il dissenso interno, attraverso epurazioni, carcere senza appello per i dissidenti, torture di critici, repressioni della libertà di stampa, politica revanscista, quasi al livello degli orrori perpetrati nell’Unione Sovietica.
Ed è sconvolgente quanto accade nel 2007, allorché persino il settimanale statunitense Time ne resta obnubilato, incoronandolo Persona dell’anno.
Ora l’auspicio è che il sedicesimo pacchetto di sanzioni -fino ad oggi inefficaci- possa creare profonde lacerazioni all’interno della nomenklatura russa.
MINACCE E DEBOLEZZE – Ma proprio nel momento in cui la parola Pace vibra nei cuori e nelle parole di tutte le persone sane, dal cerchio magico del dittatore soffiano nuovi venti di guerra.
Così, mentre le sanzioni non hanno infranto il muro dell’arrogante e (im)potente ex funzionario del KGB, proiettato verso un traguardo cinico e illogico, le ultime intimidazioni rappresentano, paradossalmente, la debilitante visione che proviene dai tenebrosi ambienti di Mosca.
Lo zar non ha fatto esporre un autorevole esponente del suo esecutivo, bensì Maria Zakharova -più che portavoce del ministero degli Esteri- servile giannizzera di Sergej Lavrov.
La sprezzante funzionaria, con tono greve e intimidatorio, ha minacciato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo il suo magistrale intervento all’Università di Marsiglia.
Il capo dello Stato, con il consueto aplomb, aveva giustamente fatto una similitudine tra il criminale del Cremlino e il dissennato progetto del Terzo Reich in Europa: «L’odierna aggressione russa all’Ucraina è di questa natura, il mondo che noi vorremmo è quello che rispetta il diritto internazionale e la sovranità di ogni Stato. La speranza è che si raggiunga una pace giusta in Ucraina e che non sia fittizia o fragile».
Ma forse il vero passaggio del discorso che ha indignato la lugubre Zak, indecente ambasciatrice di minacce e contumelie verso Mattarella, è stato «ricordare che quando l’Ucraina con il consenso della Russia divenne indipendente, disponeva di una grande quantità di armi nucleari. Su sollecitazione di Usa e Russia ha consegnato a quest’ultima alcune migliaia di testate nucleari, con l’impegno di questi Paesi a rispettarne e garantirne indipendenza e integrità territoriale. Noi vorremmo -ha scritto nel suo discorso il Presidente- che si ripristinassero quegli impegni ed accordi».
PACE&AFFARI – Anche sulla tragedia mediorientale, l’Europa stracciata è stata esclusa dai negoziati redatti a proprio uso e consumo dal pregiudicato della Casa Bianca e dal ricercato israeliano per crimini di guerra.
Trump e Netanyahu non si sono sottratti alla perversa, disumana e unilaterale negoziazione con cui intendono ripulire la Striscia di Gaza, dapprima deportando 2 milioni di palestinesi e successivamente trasformare quell’area in un centro turistico e immobiliare: la riviera del Medio Oriente.
Sul folle piano israelo-americano, hanno già espresso critiche Egitto e Giordania, destinatarie dei profughi.
Una delirante operazione, utile solo ad esacerbare il conflitto.
La verità è che il presidente Usa non ha alcun interesse (ad eccezione di quello commerciale ed economico) a ripristinare la pace in Ucraina e nella Striscia di Gaza.
Già la richiesta a Kyiv di ottenere oltre il 50% delle risorse minerarie, le cosiddette Terre rare, è funzionale ad una chiara mission per soddisfare vari settori: trilioni di dollari per l’elettronica, l’industria delle difesa, l’automotive, l’energia green.
Gli Stati Uniti di Trump e Musk rivendicano anche la ripresa delle attività estrattive, ovviamente ferme nelle aree occupate dalla Russia. Ma anche Putin punta al controllo delle risorse, disegnando un mappamondo ancor più mostruoso e inquietante.
Mentre l’Unione europea si scopre sempre più disunita anche davanti ai dazi statunitensi sulle importazioni di alluminio e acciaio, in vigore dal prossimo 12 marzo, il giallo Donald dovrà preoccuparsi di un’altra fastidiosa inchiesta che ha coinvolto il primogenito.
La procura di Venezia ha aperto un fascicolo sulla caccia in laguna del degno erede -non solo nel nome- Donald Trump jr, per accertare eventuali violazioni di legge nell’arte venatoria in laguna dello scorso mese di dicembre.
Con la spocchia della casa, il figliolo cacciatore aveva documentato il suo trofeo sui social, ignaro che l’anatra abbattuta -la tadorna ferruginea– fosse una specie protetta.
I magistrati veneziani dovranno accertare se siano state rispettate le regole che vietano l’uccisione di esemplari e la soppressione di specie rare.
E chissà che il pregiudicato della Casa Bianca non inizi -dopo quella americana- una campagna contro la magistratura italiana. Magari ispirato e alimentato dal petulante gracchiare dei pifferai di palazzo Chigi