L’ossessione del bianco


di Antonello Pelliccia
La paura si insinuava attraverso i pori della mia anima, una marea oscura che lambiva le rive della mia identità. Nei cerchi roventi dell’oblio, cercavo invano di afferrare la natura di quell’angoscia che mi stringeva in una morsa invisibile. Mi specchiavo nel vuoto del non-senso, un automa di rancore, eco di tradimenti consumati. Sotto il tappeto del mio quotidiano, celavo le ceneri di un bianco di titanio opaco, simbolo di un ideale infranto, di una purezza perduta. Con meticolosa cura, avevo steso la tela nel mio studio affacciato sul lago, cercando di imbrigliare il caos del mondo in una cornice di ordine e bellezza. Ma ora, quella traccia di biacca, solitaria e ostinata, profanava la superficie immacolata, una ferita che sanguinava silenzio. Mi avvicinavo alla tela con timore reverenziale, quasi a profanare un tempio. Cercavo soluzioni estetiche, un modo per fuggire in un altrove dove il bianco e il nero si fondevano in un abbraccio ambiguo. Ma la memoria è un labirinto inestricabile, un groviglio di fantasmi che mi perseguitano. Il tormento di un passato che non volevo ricordare riemergeva dagli abissi dell’inconscio, una serpe acquattata pronta a sferrare il suo morso velenoso. Mi rifiutavo di riconoscere la sua presenza, di dare un volto a quel mostro che mi abitava. La sua attesa silenziosa era più straziante di qualsiasi grido di dolore. Un rumore improvviso, uno scricchiolio sinistro, fece tremare il bianco della tela, come se l’universo stesso avesse emesso un giudizio inappellabile. Un suono sordo, vischioso, che lacerava il silenzio e mi proiettava in un abisso di angoscia esistenziale. Un suono che non avrei mai voluto udire, un presagio di sventura che si insinuava nelle pieghe della mia anima. Negavo con veemenza l’esistenza stessa della trasparenza insita nel bianco di zinco. Lo consideravo un sovversivo cromatico, un “non-colore” umile, pallido, povero ed egoista, usurpatore illegittimo del tono, del timbro, della densità e del flusso energetico racchiusi nella corposità dei colori fondamentali: il giallo solare, il rosso sanguigno, il blu marino. Con la sua penetrazione imperiosa, li riduceva a una cromia ambigua, declinata al femminile con termini quali giallino, rosa, azzurrino. Il silenzio che avvolgeva il rumore dei miei pensieri mi inquietava, rilasciando un riflesso incandescente. Era un silenzio gravido di significati inespressi, un vuoto saturo di presenze latenti. Il rumore dei pensieri, invece, era un’eco confusa . In questo contrasto tra silenzio e rumore, si celava l’enigma della mia esistenza. Il silenzio era lo spazio vuoto in cui l’io si ritirava per meditare sulla propria essenza, mentre il rumore era il mondo esterno che irrompeva con le sue pretese e i suoi richiami. Il riflesso incandescente che emanava da questo conflitto interiore era la consapevolezza della mia fragilità, la precarietà della mia condizione umana. Era la luce che illuminava le ombre del mio inconscio, rivelando le paure e le angosce che mi tormentavano. In quel silenzio rumoroso, cercavo una risposta al mio bisogno di autenticità, un modo per riconciliare il mio io interiore con il mondo esterno. Ma la ricerca era ardua, il cammino imper vio. Il bianco, con la sua ambigua purezza, continuava a sfidarmi, ricordandomi la complessità della realtà e l’impossibilità di una conoscenza definitiva. Immerso nel mio studio, solo di fronte alla tela “vuota”, la tensione emotiva saliva, un’onda che si infrangeva sulla riva della mia coscienza. Ero l’eco di una velatura fugace, un’ombra che sprofondava nel grigio del non-colore, in quell’inter vallo indefinito tra l’essere e il nulla. Bastava l’apparire di un raggio di luce per farmi tremare, per risvegliare in me lo spettro della paura. L’ossessione impone una trama, una narrazione ar tefatta che deforma la realtà. Perché la trama è nuova in ogni istante, un tessuto in continua metamorfosi. L’ossessione invece, è un racconto distor to, scritto nel diario del delirio visivo, una cronaca di percezioni alterate. Innumerevoli tele bianche, sottratte alla dimensione onirica dell’inconscio, rendevano incer ta la decodificazione della realtà, trasformando il mondo in un enigma indecifrabile. Percepivo il riverbero della mia ossessione che trasudava dalle pareti del mio laboratorio, un’umidità gelida che penetrava nelle ossa. Era lo stesso laboratorio dove, un tempo, avevo ipotizzato e poi disegnato ermetici contenitori per accogliere liquide linee di puro bianco, rimaste sepolte “spiritualmente”, senza mai penetrare nel sensoriale, nello spazio. Quei contenitori erano simboli di un’aspirazione impossibile, il desiderio di imprigionare l’essenza stessa del bianco, di racchiudere in uno spazio finito l’infinito potenziale di quel non-colore. Ma il bianco, nella sua sfuggente purezza, si sottraeva a ogni tentativo di definizione, rivelando la sua natura ambigua e inafferrabile. L’assurdità della vita mi si presentava allora in tutta la sua evidenza. Un mondo privo di significato intrinseco, dove l’uomo è gettato in esistenza senza una ragione apparente, condannato a una ricerca di senso che si rivela sempre illusoria. L’angoscia esistenziale serpeggiava sotto la superficie delle cose, insinuandosi nelle pieghe del mio essere. Stringevo fra i denti brandelli di coscienza, non ricordi nitidi, ma frammenti di un passato vissuto in modo autentico, come momenti di lucidità in un mare di oblio. La saliva, amara come il sapore della liber tà, por tava il peso dell’indifferenza, l’illusione di sfuggire alla responsabilità di una realtà sottomessa, sospesa tra oppressione e inganno, come un uomo che si illude di poter fuggire dal suo destino. Scrivevo messaggi inutili e deliranti su pezzi di stoffa bianca, parole senza eco, come tentativi di comunicare l’angoscia esistenziale. Poi, con cura metodica, quasi un rituale assurdo, li avvolgevo attorno a una frase senza significato, come un uomo che cerca di dare un senso a un mondo che non ne ha. Con una lama affilata, fredda come la consapevolezza della mor te, mi incidevo i polsi, facendo sgorgare gocce di sangue vermiglio, rubini scarlatti che brillavano un istante sulla pelle nuda. Le lasciavo cadere da un’altezza di trenta centimetri, una pioggia silenziosa che macchiava i bordi immacolati della camicia di lino, un sudario di lusso macchiato di sangue. Il loro viaggio continuava sulla coper tina di un libro di colore indefinito, un’eco di un mondo assurdo, privo di significato intrinseco. Infine, le gocce si posavano sui fogli bianchi, testimoni muti di scarabocchi incomprensibili, geroglifici di una sofferenza antica come l’esistenza stessa. La car ta ruvida, come la pelle di un vecchio filosofo, gemeva sotto le mie mani intirizzite, un lamento sommesso che si perdeva nel silenzio della stanza. Il silenzio che mi circondava era assordante, un vuoto denso di interrogativi senza risposta. Il rumore dei miei pensieri, invece, era un brusio confuso, un’eco di voci interiori che si sovrapponevano, impedendomi di trovare un punto di riferimento. In questo contrasto tra silenzio e rumore, si consumava il dramma della mia esistenza. La tela bianca, simbolo di un’innocenza perduta o forse mai esistita, mi sfidava con la sua muta eloquenza. Il bianco, colore ambiguo per eccellenza, rifletteva la mia condizione di uomo sospeso tra l’essere e il nulla, alla ricerca di un significato che sfuggiva continuamente. In quel laboratorio intriso di angoscia, mi sentivo straniero, escluso dal mondo e da me stesso. La mia esistenza era un susseguirsi di gesti meccanici, privi di scopo, come quelli di un automa. Ma anche in questa condizione di isolamento, persisteva in me una sottile speranza, la vaga aspirazione a un senso che forse non avrei mai trovato.