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18 Marzo 2025
L'alba incerta di Antonello Pelliccia

Di Antonello Pelliccia

Nella penombra della mia stanza, dove l’aria, densa e immobile, portava il peso di un tempo sospeso, un sentore di polvere antica e pagine consumate, il mio stereo, un cimelio di un’epoca passata, sussurrava le note cristalline dei Concerti Brandeburghesi di Bach. Sul pavimento, una copia de Il mito di Sisifo di Camus, un compagno di notti insonni, giaceva abbandonata, come un testimone silenzioso dei miei tormenti. Dormivo fino a tardi, un’abitudine che avevo coltivato come un vizio, specialmente dopo le notti agitate, quando i fantasmi dei miei pensieri danzavano nella mia mente. Il sonno, un’illusione di pace, un viaggio nei meandri dell’inconscio, dove la realtà si confondeva con i sogni, un rifugio effimero dalla sofferenza. Memoria e desiderio, due ballerini che volteggiavano nella mia mente, creando un valzer di illusioni. La realtà, un palcoscenico dove i miei fantasmi recitavano le loro commedie, negando l’esperienza spettatoriale, trasformandomi in un attore involontario del mio dramma personale. Il bianco d’argento, una promessa di luce, una speranza di fuga dal labirinto dei miei pensieri, si era trasformato in un incubo senza colore, un’oscurità opprimente dove non intravedevo alcuna via d’uscita. Era quasi mezzogiorno quando mi svegliai, trascinandomi fuori dal letto come un naufrago che emerge dalle onde. Aprii la porta dello studio, e subito i miei occhi furono catturati da enigmatiche tracce sulla parete, segni irreali, come geroglifici di un linguaggio sconosciuto. Percepivo il valore di quei segni primitivi, non artefatti dalle leggi dell’armonia, ma carichi di un’energia primordiale. La musica del rumore naturale, il fruscio del vento, il ticchettio dell’orologio, si fondeva con quei segni, risvegliando in me un’eco ancestrale. Non capivo la presenza di quei segni, ma l’ipotesi più accreditata, dopo una notte di riflessioni, era che fossero il riflesso del mio stato di concentrazione, l’impronta dei miei pensieri sulla tela della realtà. Mi tornò alla mente un verso di uno dei miei autori preferiti del progressive rock, una frase enigmatica che sembrava riecheggiare il mistero di quei segni. Camminavo nervosamente, stringendo tra le mani le mie matite, cercando l’inquadratura perfetta. Poi, senza esitare, tracciai una sottile linea gialla, parallela al pavimento, un tentativo di dare ordine al caos, di catturare l’effimero riverbero della luce su quella superficie. Lo stupore trasognato dei sensi si dissipò, e un’intuizione improvvisa mi riportò alla realtà. Quel segno, quella linea gialla, era la parabola del mio universo interiore, sospeso tra ricordi ancestrali e conflitti interiori, un solco destinato a perdersi sulla superficie della parete, lasciando solo un’immagine latente nella mia memoria. Una parete vuota non esclude un significato, ma assume diversi significati a seconda dell’osservatore. Come uno specchio, riflette l’anima di chi la guarda, rivelando i suoi segreti più intimi.

Io, l’osservatore, con la mia presenza, le mie intuizioni, la mia partecipazione emotiva, avrei dato vita e significato a quel segno. Ogni volta, sarebbe stato diverso, un riflesso mutevole della mia anima, un’interpretazione personale di un enigma universale. C’era un modello d’inquadratura che dovevo attuare per superare il confine concettuale e ritornare al mondo naturale. Semplicemente, appoggiare la testa sul pavimento, lasciare che l’immaginazione si manifestasse, abbandonarsi al flusso dei pensieri. Dovevo prepararmi a vivere nel presente, indagare il mio luogo interiore, scuotermi dal torpore del dormiveglia. Quando si diventa troppo concettuali, troppo sottili e remoti, al contatto con la superficie bianca, i colori muoiono. È l’idea che genera le caratteristiche del disegno, un limite azzerato, senza confine, senza cornice. La persistente ansia celebrativa del non ritorno, un’ossessione che mi aveva distolto dalla realtà, mi aveva condotto in un labirinto di astrazioni. Ascoltavo da una stanza attigua al mio laboratorio, senza vedere nulla, e scambiai per una risata isterica l’urlo di dolore di un mio dipinto monocromo che sezionai senza alcuna anestesia. La follia dell’arte, un sacrificio crudele sull’altare dell’espressione. Insistevo sulla possibile definizione di bianco analogico, un territorio inesplorato, un riflesso dell’anima. Poi, mi sedetti vicino alla finestra, e il mio sguardo scivolò su un riflesso, un tempo che prendeva il sopravvento, una successione di avvenimenti, una “vita” che emergeva da un territorio impalpabile, un sistema complesso di sostituzioni. Un tempo lunghissimo in uno spazio piccolissimo, un paradosso che mi tormentava. Sognando, ci si accorda con l’irrazionalità del profondo, si danza con i fantasmi dell’inconscio. Il vuoto assediava il mio spazio, un’ossessione che mi spingeva a indagare il centro, il punto di luce, la concezione primitiva dell’esistenza. Vedevo la mia opera emergere dalle tenebre, un’epifania dell’anima, e lavoravo giorno e notte per disegnare il vuoto, per catturare l’essenza dell’assenza, per dare forma all’intangibile. Elementi di integrazione per il pensiero, i ricordi e i limiti dell’uomo, un tentativo di decifrare il mistero dell’esistenza. Un attimo, forse, trascorso a riflettere sulle possibili interpretazioni, seduto sul letto, reclinato sul gomito, senza mai distogliere gli occhi dal segno. Scoperto il vero segreto dell’effetto, mi lasciai cadere sul cuscino, esausto ma appagato. Era la perfetta espressione di un’idea, fissata su quel vuoto che mi aveva dapprima fatto trasalire, poi confuso, soggiogato, atterrito. Un profondo, rispettoso timore mi invase. Tornai a collocare il segno nella sua posizione originaria, abbandonato nello spazio immateriale del mio vuoto, che esplodeva in minuscoli frammenti di assenza. Contemplavo ciò che restava del segno, parlando a bassa voce della sua rassomiglianza con il confine dell’estasi, una possente meraviglia che invadeva il mio cuore. Poi, secondo la tradizione dell’epica, dalla voice-over, con passione, cantai: ” …dorme ai piedi di una fontana, agita la bacchetta d’argento al canto dei rapaci notturni…”

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