“In-cubo”, arriva Hop


Di Antonello Pelliccia
Era una tetra mezzanotte di novembre, e il mio pensiero, come una talpa inquieta, si aggirava nel sottosuolo di un progetto enigmatico, battezzato provvisoriamente “In-cubo”.
Un’architettura, forse, o piuttosto la vaga eco di una location dal sapore dimenticato, uno spazio altro, un vuoto senza quei confini rassicuranti che la ragione ama tracciare.
Mentre sonnecchiavo, quel confine tra la veglia e il suo blando annullamento si faceva poroso, avver tii una vibrazione nell’aria, un colpo leggero, come se qualcuno, con una maldestra delicatezza, tastasse la por ta della mia camera. Non ne fui sorpreso. Era forse quel “visitatore dei sogni” di cui talvolta si mormora, colui che bussa non alla solida por ta di legno, ma alla fragile impalcatura delle fantasie, all’inconsistente materia dell’immaginazione.
Mi abbandonai al letto, in quella ricerca infinita della posizione che allevii la stanchezza, pensando, con la pigrizia di chi si arrende al sonno, che non fosse altro che un’illusione, una di quelle ombre che la mente proietta sul muro della notte. Fu l’ultimo pensiero, prima che il buio si facesse più denso.
Visioni si presentarono, cer to, ma da dove traevano origine? I minimi suoni del corpo che si muove nel letto, come potevano segnalare un pericolo? E quella presenza… era forse quel vuoto che mi accompagnava, quell’assenza che tagliava il filo dei pensieri prima ancora che potessero annodarsi? Disteso, gli occhi rivolti al soffitto, notai, in un angolo della camera, una zona d’ombra più intensa, quasi palpabile. Fu quanto riuscii a distinguere del mio strano visitatore. Una strana creatura, appollaiata lassù, in una posizione che sfidava le leggi della gravità, se mai quelle leggi avessero ancora un significato in quella penombra. Mi ritirai, con un gesto brusco, sotto il riparo illusorio delle lenzuola, evitando di fissare quel punto oscuro. L’ansia, come un’onda fredda, mi sommerse.
Chi si presentava ora all’ingresso della coscienza? Riconoscevo, forse, una minaccia vaga, indefinita, come un’ombra che precede un evento senza nome. Il silenzio si fece denso, protratto per alcuni interminabili minuti, un tempo dilatato dall’attesa. Giacevo immobile, tentando di rallentare il ritmo del respiro, quasi volessi mimetizzarmi con l’assenza di suono, aspettando di vedere se qualcosa, nell’opacità della notte, avesse intenzione di manifestarsi. Era buio, un buio che sembrava respirare, e udivo, o credevo di udire, movimenti silenziosi provenire da quel “là fuori” che non aveva contorni precisi.
Poi, un colpo secco alla por ta, un “toc” inatteso che mi fece trasalire. La paura, un’emozione grezza e primordiale, mi strinse la gola. Piano, senza emettere il minimo rumore, raccolsi un coraggio incer to e, in punta di piedi, evitando accuratamente di volgere lo sguardo verso l’angolo oscuro, con la testa china, le braccia irrigidite lungo il corpo, aprii la por ta. Uscii dalla camera, come un automa obbediente a un impulso oscuro, e m’incamminai verso il bagno, un’altra stanza anonima in quella notte senza volto.
Mentre percorrevo il corridoio, un suono indistinto mi raggiunse… poi, una voce fredda, penetrante, risuonò non all’esterno, ma direttamente nella mia testa. “Non cercare di sottrar ti alle tue incer tezze, al tuo precario equilibrio. Io sono qui con te,” sussurrò, con una familiarità inquietante, “ricordar ti, conosco le tue debolezze.” Un sussulto, un battito accelerato, e mi svegliai. Guardai l’orologio: erano circa le tre. Mi sentivo smarrito, come se fossi riemerso da un’acqua torbida. Poi, lentamente, compresi il perché di quel risveglio brusco. Ero ostaggio dell’ansia, forse di qualcosa di più insidioso, in quella disperazione che si nutriva di un digiuno concettuale. Possibile che fosse la mor te lenta delle emozioni, o al contrario, il trionfo incontrollato dell’immaginazione? Un intruso, forse? O qualcos’altro, di più intimo e per turbante? Nel mio studio, ricordavo vagamente, qualcosa era caduto, un’opera a cui tenevo.
Tesi l’orecchio verso quella stanza immersa nel buio. C’era silenzio. Uno strano silenzio, un’assenza di suono che sembrava carica di significato. Ecco cos’era che rendeva tutto così terrificante: non un rumore, ma una presenza oscura, inquietante, che sentivo vibrante nell’aria, percepivo quasi il suo respiro invisibile.
Mi alzai, muovendomi con cautela nell’appar tamento buio fino allo studio. Lì, in quel vuoto illuminato dal pallido chiarore lunare, ci incontrammo.
Vidi qualcosa di chiaro stagliarsi accanto alla mia ultima opera, una sagoma incer ta, un… qualcosa. Accesi la luce, quel gesto banale che lacera il velo del notturno mistero. Eravamo uno di fronte all’altro, in piedi, immobili, in quella sospensione del tempo che solo la notte concede.
Essa era piccola, di una statura quasi infantile. Aveva una fronte alta, sproporzionata forse, gli occhi vitrei, che riflettevano la luce senza restituire calore, e le guance solcate di rughe precoci, segni che incidevano sul volto una storia di crudeltà, di un disgusto radicato verso la fragile specie umana, e una sottile, quasi inconfessabile, aspirazione al sadismo.
Ero ancora immerso in un processo d’identificazione incer to, cercando di fissare i contorni di quell’apparizione inattesa, quando avver tii un mutamento nell’aria, un soffio leggero, quasi un sussurro del vento: “il nulla è forma.” Una frase che risuonava non come un’informazione, ma come un’eco di un pensiero che già albergava in un angolo recondito della mia mente.
Infine, contemporaneamente, come se un tacito accordo avesse preceduto ogni gesto, senza che una sillaba fosse emessa, ci scrutammo a vicenda, ci studiavamo con la circospezione di due animali che si incontrano in un territorio incer to.
Poi scompar ve, con una fluidità inattesa, passando attraverso la finestra chiusa per poi, in un paradosso che sfidava ogni logica, riapparire varcando la por ta della camera, che avevo lasciato socchiusa in un gesto di negligenza o forse di inconscia attesa.
“Vattene! Vattene!” bisbigliai, sollevando il lenzuolo fino all’altezza degli occhi, come a erigere una fragile barriera contro l’inspiegabile. “Non ho bisogno delle emozioni degli altri! Non ho bisogno di perdermi in questo incubo.”
Le sue labbra sottili tremavano leggermente, balbettando parole in una lingua straniera, forse la sua, una lingua incomprensibile, indecifrabile, un suono che non trovava eco nel mio vocabolario interiore. Un sospiro, seguito da un profondo sbadiglio, quasi di noia, e poi si strofinò gli occhi con un gesto stanco. Si adagiò sulla poltroncina, con un’aria sorridente, tranquilla, imper turbabile, come se nulla di strano fosse accaduto. E iniziò a parlare. Una serie di proposte, di assurdi progetti e proponimenti, cui negavo con un muto diniego ogni mia approvazione. Sosteneva, con una convinzione inquietante, che avrebbe accompagnato il “Vuoto oltre il tempo”, annullandolo nel luogo delle mie intenzioni, dove il suo libero accesso gli consentiva di fissare il domicilio per non abbandonarlo mai più.
Simili asserzioni irresponsabili, pensai, come se il vuoto potesse essere addomesticato, condotto al guinzaglio delle mie fragili intenzioni.
Guardando di nuovo l’angolo della stanza, intravedo Hop che sbatte goffamente contro il lampadario, intromettendosi con la sua presenza incongrua lungo i margini della mia coscienza. Sapevo che sarebbe tornato, era una presenza ricorrente, un’ombra familiare. Ora appare, parlando a me con parole che sembrano intessute di un morbido delirio, la luce, stranamente, incornicia la sua figura enigmatica con un alone quasi benevolo.Hop, in un improbabile doppio petto, tiene tra le mani uno spar tito sgualcito e intona, con una voce stridula e incer ta: “Io sono qui e in un altro luogo, tu dove sei? Dove sarai?… Vattene e non tornare mai più!” Urlai, con un impeto di esasperazione.
“Tornerò nei tuoi sogni,” rispose, con una risata sottile che si protraeva nell’aria densa della notte, “navigherò nella tua realtà sfaccettata.” E la risata continuò, un suono inquietante che si insinuava nelle pieghe del mio silenzio interiore.
“Io sono Hop, ricordati,” sibilò la voce, un’eco vischiosa proveniente da un luogo indefinito tra la veglia e il sogno. “Hop, il tuo incubo scarlatto, gelatinoso, grasso della tua oscura follia, che si addentra nelle nebbie delle tue imbarazzanti menzogne.” Una descrizione repellente, eppure stranamente familiare, come un ritratto deforme di una par te di me che preferivo ignorare.
“Vivo della tua paura, della tua codardia, della tua morale masticata e sputata. Ti studio, osser vo dal buco della serratura della tua anima contor ta che implora inutilmente il perdono nell’attesa vana della liberazione, di una resurrezione che non avverrà.”
La sua voce si incrinò in un suono che oscillava tra il sarcasmo e una sor ta di lugubre trionfo. “Io provo immenso piacere nel veder ti soffrire, godo… nel tragico finale delle tue insicurezze.
Sono Hop! Sono Hop! Sarò per l’eternità Hop!”
Queste parole sembravano provenire non da una bocca fisica, ma dal centro stesso della mia “In- cubo”, da quell’intricata ricostruzione interiore, da quella struttura complessa e perfettamente regolata che avevo eretto con tanta cura e altrettanta illusione di controllo.
C’era qualcuno dentro. Non un “qualcuno” nel senso usuale, forse, ma una presenza, un’intrusione che violava i confini labili tra il mio mondo interno e quella vaga entità che chiamavo “Hop”.
Mi avvicinai con quella cautela che si riser va agli oggetti fragili, temendo di incrinare l’equilibrio precario della mia “In-cubo”, di svelare troppo bruscamente i meccanismi nascosti.
In quel labirinto interiore, in quel groviglio di pensieri che si auto-proiettavano in forme oscure, Hop si muoveva con una familiarità inquietante. Lo vidi, mentre si insinuava tra le copie autentiche di quel “qualcosa” indefinibile che costituiva non solo le fondamenta, ma l’essenza stessa del mio progetto per scomparire, come un’ombra che si fonde con un’altra ombra.