Nazionale: bugie, cinismo e tradimenti
di Pasquale Scaldaferri
La storia delle dimissioni di Roberto Mancini da Commissario tecnico della Nazionale di calcio, copre di ridicolo l’intera Federazione.
Giovanni Galeone, tra gli esteti del calcio fine anni Ottanta-Novanta, affermò sull’uomo di Jesi: “Sottovalutato come calciatore, sopravvalutato come allenatore”.
Mutuando e mutando la tesi del tecnico, dissento sulla prima parte del giudizio.
Ché Mancini è stato sempre considerato e apprezzato come calciatore, non sfondando in nazionale soltanto per suoi capricci e vanità individuali, estromesso giustamente anche da Arrigo Sacchi (oltre che da Bearzot e Vicini) per la sua anarchia tattica, i reiterati comportamenti da “primo della classe” e la perpetua inosservanza di norme, precetti e princìpi del “Vate di Fusignano”.
Nel ruolo di allenatore -baciato sempre dalla fortuna e da congiunture storiche favorevoli- ha raggiunto traguardi sportivi, anche da sé inopinati. E gli fu concesso, agli albori della carriera, di allenare la Fiorentina in deroga, attraverso il consueto esercizio molto in voga in una nazione sovente inottemperante alle regole. E non di rado “fuorilegge”.
Piuttosto, la sua strategia infallibile è stata incessantemente rappresentata dai tatticismi messi in campo, i legami personali subordinati agli interessi contrattuali e all’interruzione dei rapporti di lavoro anzitempo, per garantirsi un’aurea buonuscita: lo ha fatto all’Inter, al San Pietroburgo e al Galatasaray, in cui è riuscito ad evitare penali altissime per la rottura del matrimonio.
Assalito da un senso di impotenza e frastornato dalla pochezza delle sue scelte, in un torrido sabato di agosto decide di inviare per il tramite dell’ avvocato -che è anche sua moglie- una “pec” al presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio, Gabriele Gravina, manifestandogli uno stato d’animo agitato e profonde perplessità nella prosecuzione della guida tecnica per divergenze con il destinatario della missiva, rassegnando le dimissioni irrevocabili.
Al di là della forma anomala attraverso la posta elettronica certificata, Mancini ha sbagliato periodo e modi di rimettere il mandato, che arriva a tempo scaduto e con motivazioni risibili.
Avrebbe dovuto fare non uno, ma due passi indietro all’indomani della vergognosa eliminazione dal Mondiale, sconfitto già nella fase dei gironi di qualificazione e tramortito al minuto 92 nello spareggio per l’accesso a Qatar 2022 da un gol della Macedonia del Nord, formazione con caratura tecnica e organico di squadra paragonabile alla Gelbison Cilento, che milita nel campionato di serie D.
Il marchigiano non ha seguito le orme di tanti suoi illustri predecessori, adottando un atteggiamento pretestuoso e andando via fuori tempo massimo, con la garanzia di una panchina più remunerativa -magari nel Golfo Persico- sicuramente in Medio Oriente.
Il presidente federale, inerme dinanzi a questa scelta inaspettata -da par suo- è riuscito nell’operazione di trovare la toppa peggiore dello strappo, individuando nel tecnico Luciano Spalletti il successore in Nazionale.
Il massimo dirigente sportivo ha così creato un conflitto tra la società del Napoli e la Federazione.
Avallando il malcostume dell’italietta -non solo pallonara- il gravoso GG ha artatamente fatto finta di non conoscere la clausula che il tecnico di Certaldo ha sottoscritto con la società napoletana al termine della trionfale stagione culminata sul gradino più alto del podio, trentatré anni dopo l’ultimo tricolore.
È stato proprio l’allenatore Spalletti a chiedere di astenersi dall’ultimo anno di contratto che lo legava ai Campioni d’Italia per dedicarsi esclusivamente alla famiglia, esausto dalle due stagioni sulla panchina partenopea.
Ma GG, evidentemente insensibile alle richieste del toscano, lo ha egualmente “sfriculiato”.
Pensando che anche stavolta il percorso fosse fluido e sgombero di ostacoli e impedimenti, il presidente della federcalcio, disarmato e disarmante si è intestardito, ignaro di creare un precedente pericoloso e scivolando sul terreno vischioso di mera superficialità e corrosiva approssimazione.
GG, non nuovo a decisioni azzardate, passerà alla storia per la nomina di un Ct della Nazionale che dovrà essere legittimato da un tribunale della Repubblica.
Perché se c’è una società che in questa storia è parte lesa, è il Napoli calcio, esente da qualsiasi responsabilità e con una clausola, richiesta dalla controparte, che non ammette equivoci.
Ergo, se Spalletti vuole provare l’ebbrezza di sedersi sulla panchina della nazionale Campione d’Europa, si rassegni a pagare il risarcimento alla società del Napoli, per un compromesso da lui esplicitamente richiesto per fruire di un anno sabbatico. Poi clamorosamente ritrattato.
GG aveva l’occasione propizia di esercitare una saggia e oculata opzione, scevra di strascichi polemici e giudiziari: Gianni Rivera.
Il primo Pallone d’oro del calcio italiano ha offerto la propria competenza al servizio del club Italia, anche per liberarlo da lacci e lacciuoli della speculazione economica.
Il golden boy non siederà mai sulla panchina più prestigiosa d’Italia, ma GG per presentare il nuovo commissario tecnico dovrà attendere anche pareri autorevoli del pool di legali e soggiacere a contenziosi giudiziari.
Difendere il titolo conquistato a Wembley è un obbligo, farlo con etica e rigore morale rappresentava un dovere imprescindibile.
La vigilia delle qualificazioni a Euro 2024 lascia presagire tempeste estive, senza risparmiare altre stagioni dell’anno.
“Umana cosa è aver compassione degli afflitti” -è scritto nel Decameron di Giovanni Boccaccio- insigne conterraneo di Spalletti.
In queste ore febbrili, il presidente federale farebbe bene a leggere qualche pagina di uno dei capolavori della letteratura europea del Trecento. O forse per i protagonisti di questo capitolo grottesco, il “Mistero Buffo” di Dario Fo sarebbe l’opera più appropriata.