Il riMorso che fa piangere
di Rossella Iannone
Dal 1998 in agosto è ormai di scena la Notte della Taranta, il festival di musica popolare più importante d’Europa e manifesto sonoro, linguistico ed evocativo del Salento. Ma il fenomeno del tarantismo è ben più antico di 25 anni e va ben oltre il lato puramente folkloristico. Esso affonda le radici nel Medioevo, tant’è che la prima testimonianza scritta in merito risale al 1362 con il Sertum papale de Venenis di Guglielmo de Marra; a parlarne sarà anche un trattato ad opera del medico Cristoforo degli Onesti e questo fenomeno interesserà finanche Leonardo da Vinci. Ma cos’era il tarantismo? Come ha scritto il professore Francesco Giovanni Giannachi, “se il tarantismo fosse stato materia non dolorosa, lo avremmo trovato nei cùnti (racconti) e nei traùdia (versi) tradizionali”.
E questa acuta osservazione è ben esplicitata dal sapiente studio condotto dall’antropologo napoletano Ernesto De Martino nell’estate del 1959. Il tarantismo concerne il cosiddetto morso della taranta, un ragno identificato con la lycosa tarentula, il cui veleno si riteneva di poter contrastare ed espellere attraverso danze, musiche, colori e religiosità. Ma per De Martino più di un qualcosa non tornava e dunque si recò con una equipe in Puglia, terra elettiva del tarantismo.
Il primo punto su cui si basò l’indagine fu il criterio di campionamento dei tarantati; per poterli selezionare venne utilizzata la festa di S.S. Pietro e Paolo il 29 giugno, quando cioè i tarantati affluivano nella città di Galatina, considerata immune dal tarantismo proprio perché protetta da San Paolo, cosa che si impose subito all’attenzione dell’equipe e che già di per sé faceva pensare ad un condizionamento culturale e ad un rito stagionale, piuttosto che al morso tossico di un aracnide. Perdipiù, crisi e cura apparivano sensibilmente più frequenti con l’approssimarsi di questa festa religiosa. Da un punto di vista medico venne immediatamente esclusa una definizione nosologica nel quadro della psichiatria del tempo, mentre emersero determinate caratteristiche: il tarantismo si manifestava principalmente sulle donne; all’interno della stessa famiglia era ravvisabile più di un caso; il “primo morso” cadeva con più frequenza fra gli inizi della pubertà e il termine dell’età evolutiva. Se è vero poi che tutto nell’aspetto della lycosa tarentula richiamava l’immagine della potenza del morso, esso appariva di gran lunga meno temibile e tossico di altri ragni, come ad esempio il latrodectus tredecini guttatus, che però non suscitavano reazioni emotive altrettanto intense.
Dalla più antica letteratura tarantista si ricava che l’esorcismo coreutico-musicale-cromatico poteva aver luogo sia a domicilio che all’aperto, con la particolarità che tale spazio doveva apparire “sacro”. Nel rito confluivano diversi oggetti simbolo, quali spade, specchi, altalene, funi sospese al soffitto, nastri multicolori, vasi di basilico e menta, vesti preziose.
A Nardò, l’equipe studiò innanzitutto una giovane sposa di 29 anni, Maria. Maria ripeteva un ciclo coreutico ben definito, articolato in una parte a terra e in una parte in piedi e terminante sempre con una caduta al suolo, dove continuava a muoversi e a contorcersi: la danzatrice si identificava con la taranta, per poi alzarsi di scatto e sbattere a ritmo i piedi, come a voler lottare stavolta contro il ragno, cercando di schiacciarlo. Ruolo fondamentale non era solo dato dalla musica, composta da organetti, violini e tamburelli, ma anche dal dato cromatico: il giallo e il rosso in special modo sembravano acuire lo stato di delirio. Ma per compiere la “guarigione” occorreva aspettare la grazia di san Paolo, che arrivava o alle 12, o alle 13, o alle 17. Se in queste specifiche ore non giungeva la grazia, occorreva aspettare il giorno successivo. Nel caso di Maria, san Paolo intercesse alle 14.55: la tarantata affermò di aver udito la voce del santo esprimersi in tono basso e in dialetto.
Per De Martino, taranta, morso, veleno e san Paolo erano simboli che testimoniavano un dramma psichico da appurare. Nello specifico, Maria da Nardò era una raccoglitrice di tabacco e una spigolatrice, sposata da 9 anni ad un contadino. Rimasta a 13 anni orfana di padre, al quale era particolarmente legata, fu accolta insieme alla madre, con cui era poco affiatata, a casa di uno zio e poi di una zia, ma da tutti, Maria fu sempre mal sopportata. A 18 anni si innamorò di un giovane che però la lasciò e ciò la fece definitivamente sprofondare in un acuto dolore: fu così che si verificò il primo “morso della taranta”. Fu poco dopo costretta a sposarsi senza amore con un giovane contadino malato, spesso disoccupato e dai modi bruschi, costretta in quanto fu indotta a convivere per qualche tempo more uxorio. Con la tecnica “parole-stimolo” effettuata dall’equipe su Maria, alla parola “morso” la tarantata rispose “rimorso che fa piangere”.
Il caso di Maria da Nardò fu uno dei più completi che l’equipe ebbe modo di studiare e indirizzò la ricerca su chiavi di lettura ben precise: il tarantismo costituiva il dispositivo simbolico mediante il quale un contenuto psichico conflittuale, che non aveva trovato soluzione sul piano della coscienza e che operava nell’oscurità dell’inconscio, veniva configurato su di un piano mitico-rituale che portava ad alleggerire il peso di una vita subita e restituiva un relativo equilibrio psichico. L’alto tasso di donne tarantate si spiega con l’appartenenza ad una società fortemente androcratica. La prevalenza di tarantati apparteneva al mondo contadino (sebbene nella letteratura dell’800 furono riportati anche dei casi appartenenti al ceto alto) e rivestiva la stagione estiva (dal principio di maggio alla fine d’agosto), nella quale si decideva il destino dell’anno: si colmavano i granai e le celle vinarie, si pagavano i debiti e, si entrava anche in una drammatica sensazione di sospensione sul come sarebbe andata la nuova annata agricola. Sul piano economico dunque, l’estate rappresentava la possibilità di pagare i debiti; sul piano simbolico significava fare i conti con i debiti esistenziali accumulati sul fondo dell’anima.
In tutti i suoi studi Ernesto De Martino pose l’accento sul concetto di presenza intesa come l’esserci, l’auto rappresentarsi, il manifestare la propria identità. Quando il flusso degli eventi devia da ciò e si diviene semplice “eco del mondo”, si precipita nella crisi dell’esistenza e dunque nella sparizione lenta della presenza.
Le ricerche condotte nel Salento divennero il magnifico libro “La terra del rimorso” e il documentario omonimo, al quale prese parte anche Salvatore Quasimodo: l’antropologo chiese al poeta di scrivere e di leggere un commento alle scene del documentario. Il filmato ci mostra anche numerosissimi echi alle poesie e ai carteggi del poeta e diviene fonte importantissima ed interessantissima sul piano storico, sociologico, antropologico e culturale di un territorio in cui, tra le spighe di grano e le foglie di tabacco, si è insidiato il ragno della follia, facendosi strada nel sangue di corpi che conoscono solo il lavoro arido della terra, spaccata dal sole e dalla solitudine.