OGNI ANNO
Tratto da “La terra delle piccole lune” di Pasquale Carelli
“Ecco qua… se lo mettiamo un po’ di lato, non si vede che gli manca tutta la gamba destra,” disse Agostino.
Don Emilio, che stava convincendo un castello medioevale a restarsene con un po’ di dignitoso assetto sulla cima di un’improbabile montagna dall’anima di carta, buttò giù una guardataccia dalle vette e borbottò: “Tu e la tua fretta!… I pastori si sistemano alla fine!”
Tutti gli anni era la stessa storia; quell’Agostino con la tarantola di dare un precoce domicilio alle statuine del presepe e don Emilio a predicargli la pazienza come ai fanciulli al catechismo. Però era una vita che da soli facevano il presepe della chiesa, quell’annuale pezzetto di mondo sacro in miniatura, protetto e soffocato insieme dal confessionale e dalla balaustra dell’altare.
Si davano appuntamento ogni anno, come se quel muschio e quei pastori fossero un richiamo che li unisse tutti e due per un destino. Sicché ogni dicembre che veniva li trovava affaccendati nel gelo della chiesa, sotto lo sguardo malinconico e pietoso dei santi in fila nelle nicchie laterali.
Ma se dicembre avesse avuto, tra freddo e spifferi di vento, anche degli occhi e degli orecchi maliziosi, certo avrebbe capito che qualcosa passava tra quei due…
Se per miracolo (tanto siamo in una chiesa) togliessimo di dosso a don Emilio e ad Agostino una trentina d’anni, vuol dire che li troveremmo giovani e sanguigni, entrambi obbedienti a una natura traboccante di voglie gagliarde e antiche quanto il mondo; una natura pure irrispettosa: della ragione, delle tonache nere, dei consigli e dei biasimi accennati con i musi storti. Insomma, trent’anni addietro, entrambi avevano l’età che, se avessero incontrato gli occhi teneri e profondi di una donna, pareva un peccato non volerci ragionare fino in fondo. Fin qui tutto normale: è un comandamento forte di natura; ma il fatto è che a tutti e due capitò di ragionare con le stesse identiche pupille che il diavolo, o chissà quale altro malandrino, aveva messo in fronte a Filomena.
Successe tutto in una primavera, anzi cominciò e finì giusto dentro il respiro di quei tre mesi addobbati di petali di peschi e biancospini, con la luna che chiocciava tiepida le stelle e un suonare di grilli seminati in mezzo all’erba. Ditemi voi se non era il tempo…
Filomena regalava a ciascuno dei due una diversa notte; così ognuno s’illudeva d’essere l’unico re di quella primavera. Ma quando i grilli smisero il concerto, ella licenziò Agostino e pure don Emilio su due piedi, senza dare manco spiegazioni: Filomena era donna avara di parole, e si teneva le sue cose chiuse in corpo come le castagne se ne stanno dentro al riccio. Però Agostino, che aveva la faccia un po’ volpina e il cervello condito con il sale, a fine giugno lo aveva già capito che non era stato l’unico re della regina; e a metà agosto, dell’altro, del rivale, sapeva pure il nome. Per don Emilio, invece, sapere fu ancora più facile ed amaro: Filomena gli disse tutto proprio in chiesa, dall’altra parte della grata, in confessione; era la vigilia della festa dell’Assunta, faceva così caldo in chiesa che le candele si piegavano da un lato, e parevano pentirsi pure loro.
Il muschio aveva su come una brina; e don Emilio, a furia di toccarlo, ne aveva le dita tutte fredde e indolenzite. Se le fregò, poi s’alitò le palme con la bocca aperta e disse: “Ci vorrebbe un po’ di fuoco anche qua dentro…”
“Perché, non c’è?” fece Agostino indicando i legnetti affastellati sulla carta rossa che facevano il falò a due passi dalla grotta. “Non scherzo, don Emilio; accostateci su le mani aperte e sentirete un caldo sulla pelle… chissà cosa sarà, ma vi assicuro che funziona… è come un’impressione…”
“Si dice suggestione, Agostino… è solo un’illusione…”
“E cosa importa, don Emilio?” perseverò Agostino. “Quello che conta è che si senta un caldo… se è per questo, almeno mezza vita è un’illusione…”
Don Emilio, allora, rimase con le mani giunte che pareva a metà di una preghiera. Ma non aveva santi nei pensieri: tacendo, si stupiva per quella verità dettata da Agostino. E sarebbe rimasto così ancora per un pezzo se una pecorella senza coda e monca d’una zampa non fosse scivolata a valle da sopra una collina inospitale; la raccolse con le dita viola e la rimise a masticare, a valle, un’erba più sicura; poi prese due pastori dalla cassa e li sistemò con cura accanto al fuoco della carta rossa. Fu allora che disse a mezza voce: “Chissà chi di quei due s’illude…”
“Lo sanno solo i santi, don Emilio,” fece l’altro, alzando gli occhi a santa Elisabetta che presidiava il suo spicchio di chiesa dalla nicchia.
Filomena si fece quell’autunno chiusa in casa; nemmeno dietro i vetri si videro spuntare gli occhi neri tra le foglie ancora verdi dei gerani. Fu il tempo che il paese cominciò a parlare: anche la messa d’Ognissanti fu tutto un calcolare mesi e lune, dalla prima all’ultima sedia della chiesa; e il giorno dell’Immacolata ognuno fu sicuro: “Sarà a febbraio, verso la coda di febbraio…”
Ma, siccome c’è anche chi ha fretta di venire al mondo, quella carne nuova nacque settimina, e proprio la notte benedetta di Natale. Fu come un dispetto bello e buono, e ognuno commentò dicendosi indignato di spartire un giorno così santo tra due neonati diversi come il bianco e il nero.
“Sarà lupo mannaro,” sentenziò una vecchia, col muso affondato in uno scialle scuro; e assicurò che Dio così puniva chi si sceglieva, in tutto il calendario, proprio quel giorno ch’era di suo figlio.
Ormai il presepe era finito, era venuto bello. Agostino disse: “E’ meglio dell’altr’anno.” E si sedettero ad ammirare insieme l’opera compiuta. La paglia che aspettava nella grotta era per tutti e due una domanda vecchia: di chi era il bambino nato quella notte?
Poi andarono di là, in sagrestia, a bere il caffè bollente e profumato d’anice sincero; peccati, speranze, tenerezze e dubbi si stemperavano nella bevanda scura, e dopo un poco svanivano col fumo. Era sempre così, ogni anno.