23 Novembre 2024

di Pasquale Martucci

Nella tradizione popolare, spesso si sentono narrare storie di figure che caratterizzavano la vita delle comunità e la mantenevano coesa. Una di queste è certamente il monaciello, munaciello, munacieddo, che acquisiva aspetti particolarmente interessanti: uno spiritello folkloristico, un piccolo monaco, di natura sia benevola che dispettosa.

Matilde Serao nelle sue: Leggende Napoletane, alla fine dell’ottocento parlava di un personaggio realmente esistito alla metà del quattrocento, nato da un amore impossibile tra la figlia di un ricco mercante ed un garzone. L’amore tra i due era contrastato dalla famiglia di lei: il giovane fu ucciso e la fanciulla in stato interessante si fece rinchiudere in un convento dando alla luce un bambino deforme. Durante la crescita, quella creatura fu vestita con un abito bianco e nero da monaco. Aggirandosi per le strade di Napoli, per il suo aspetto non certamente edificante, destava disgusto e sospetto: quando lo si incontrava con il cappuccio rosso la popolazione pensava a buoni auspici, se indossava un cappuccio nero erano disgrazie. Dopo la morte della madre, quel piccolo uomo scomparve e qualcuno disse che fosse stato portato via dal diavolo. Eppure il popolo napoletano continuò a vederlo negli ambienti più vari: furono ricondotti alla sua vendetta per i torti subiti gli eventi sfavorevoli che si verificavano in città.

La tradizione indica tra le sue abitazioni monasteri e abbazie o vecchi palazzi. A volte appariva e lasciava monete o soldi nascosti, oppure faceva dispetti. Secondo le credenze popolari, chi entrava in contatto con il munaciello non doveva rivelare la sua visita: era importante dargli del cibo nella speranza che si trasformasse in oro. In questa versione benevola, si manifestava di notte a coloro che avevano bisogno, agli umili, alla gente più povera. Nei racconti popolari si dice che, quando qualcuno riceve una fortuna improvvisa, ha avuto contatti con il munaciello.

Anna Maria Ortese ha prodotto alcune pagine su questa figura: oggi Adelphi ripropone, nel volume: Il monaciello di Napoli (2024), racconti dispersi che risalgono al 1941 e 1942 e che conducono ad un mondo che va valorizzato, perché fa parte della nostra tradizione fatta di luoghi, gesti, immaginazione, ma soprattutto magia.

Le storie di munacielli, esseri quasi divini, dispettosi ma benevoli, rappresentavano una presenza costante nelle comunità cilentane, come abbiamo riscontrato in tantissime ricerche sulla cultura popolare, con testimonianze raccolte nei volumi: P. Martucci, A. Di Rienzo, Identità cilentana e cultura popolare, CI.RI. Cilento Ricerche, 1997; P. Martucci, Le comunità cilentane del novecento, Ed. Arci Postiglione, Salerno, 2005.

Nicoletta La Gamma, appassionata testimone del folklore cilentano, parla delle leggende e delle tipologie narrative del Cilento, dalle storie di diavoli, alla magia, alle credenze.

In alcune persone era presente la figura del munacieddo. È uno spirito benigno che sovente si presenta alla fantasia popolare come un fraticello che si diverte a fare scherzi: i munacieddi non sono aberranti, ma intervengono nella vita individuale e familiare per ammonire ed avvertire e sono, in genere, servizievoli e zelanti”. (Nicoletta La Gamma, intervista, Rofrano, 12/6/1996)

Nella cultura popolare, sono tante le storie di tesori sepolti e poi ritrovati. E per la popolazione sono importanti le vicende che accadono nelle case baronali.

Un brigante al tempo di don Giacomo Reielli, un ricco antenato della nobildonna Marianna, mandò tramite un fattore una cesta con la testa mozza di un caprone e la richiesta di bestiame, prodotti della terra e danari. Don Giacomo possedeva una cesta piena di monete d’oro ma non aveva alcuna intenzione di sottostare al ricatto. Fece nascondere nella casa i soldi, poi fece giurare in chiesa davanti all’altare al servo di non rivelare mai il nascondiglio ed inviò la risposta al brigante: – Vi posso dare ciò che chiedete, bestiame e prodotti delle mie terre, ma non danaro perché la mia famiglia non ne possiede! Qualche anno dopo don Giacomo morì a tavola mentre desinava e non riuscì a rivelare ai parenti il segreto che portò con sé nella tomba. Il servo fu rintracciato, ma, pensando a malefici e sventure quali conseguenze della rivelazione di un segreto giurato davanti a Dio, non proferì parola sul tesoro nascosto” (Marianna Reielli, Intervista, Gioi Cilento, 17/7/1996).

Si era soliti narrare storie di demoni e megere che influivano talmente sulla psiche da dissuadere chiunque dallo svelare arcani segreti. Chi aveva osato sfidare il maleficio era stato, a volte, vittima di violente azioni che lo avevano condotto alla morte. Agli occhi della gente il tutto era inteso come una sfida a quelle forze del soprannaturale che governavano l’esistenza della gente.

Il precedente racconto è significativo: molti pensavano che proprio nelle case nobiliari vi fossero tesori che andavano trovati, grazie all’aiuto di figure quali il munacieddu.

Su questa credenza tuttavia non tutti i pareri sono concordi: qualcuno pensa che si trattava solo di storie per fare andare a letto presto i bambini.

U munacieddo? Non abbiamo mai parlato. Ci sono le famiglie che per far paura ai bambini dicevano queste cose. E raccontavano storie di lupi, di assassini … storie su questi fatti. In casa nostra no!”. (Giovanni Cortazzo, intervista, Alfano, 28 maggio 2001)

Tante persone sono al contrario convinte che il munaciello fosse esistito veramente.

“Sai adduvè stato u munaciello? Nu juorno u munaciello jette a piglià nu uaglione ra into lu lietto. – Te faccio veré ‘na cosa, e lo portò in un posto. Il padre corse appriesso lu figlio e lo salvò ra u munacieddu che lo voleva buttare dentro nu precipizio” (Anna Parmataro, intervista, Licusati, 23 giugno 2001).

Il munaciello chiamò quel ragazzo per ucciderlo, ma il padre lo salvò.

U munacieddo? Era uno cu nu cuppulieddo russo ‘ncapo … pizzuto (cappellino rosso appuntito). C’era la baronessa Esmeralda e c’erano i cantine ru palazzo. Mezza popolazione re Alfano ha sempe avuto paura re trase (entrare) inta lu palazzo. Nu criaturo ficcò la mano inta nu buco ru palazzo pe’ se piglià coccosa. Per dare l’esempio i baruni accerèro lu criaturo che si trasformò in munacieddo e fujìa (fuggiva) attorno a lu palazzo. Tutti currìano arreto lu criaturo. Vulìano piglià lu tesoro” (Antonio Angelo Villano, intervista, Alfano, 28 maggio 2001).

Si trattava di un bambino che aveva forse scoperto il tesoro nel palazzo baronale: la leggenda dice che fosse inseguito da tutti, proprio perché avrebbe potuto indicare il tesoro. Ecco perché è rappresentato sempre in maniera benevola.

Si dicevano storie strane: questo munaciello nun aggia mai capito che cosa fosse! Si diceva … tirava piatti, coperte … e poi lo spirito… Io in verità nun aggia mai visto niente. Anche se allora c’era una donna, Mediùm … e andavano in quella casa là. Aveva il contatto con l’al di là. Nun ‘a chiamavamo maga, ma Agnese: andiamo a parlare cu i defunti a’ casa r’Agnese. Quando chiamava la persona, compariva ‘na luce, come nu fosforo … e poi parlava. Parlava, e quanno invocava lo spirito usciva ‘a mamma r’Agnese. E poi arrivavano gli altri, persone di tanti anni fa. Catarina re Criscito … ha, ha, ha … nomi che nun esistono ora. Chi lo sa! Mah!” (Vincenzo Saturno, intervista, Licusati, 23 giugno 2001).

U munacieddo? Aggio visto cu l’uocchi miei! Tenìa nu cappelluccio russo pizzuto. Se le levavi ‘u cappelluccio lui lo chiedeva, ed allora dicevi: – Si me rici ‘u tesoro, t’u rào (Se mi dici del tesoro te lo do)!”.

Ma avevate paura del munacieddo?

E pecché avìa avé, mi doveva indicare il tesoro…” (Immacolata Lancuba, intervista, Alfano, 28 maggio 2001).

Per trovare un senso a queste credenze, occorre comprendere che l’idea del tesoro certamente aveva a che fare con le ricchezze accumulate dai nobili a danno del popolo sfruttato. Come sono ricchi!, è una frase che torna abbastanza frequentemente nei cunti.

I fatti che si raccontavano erano spesso fantastici: un miscuglio di immaginazione e credenze. Eppure, anche questo era cultura popolare, al pari delle storie tramandate di munacielli, demoni, streghe: tutto ciò che serviva alla coesione sociale.

Si trattava di una finalità forse educativa di trasmissione di valori comunitari, espressi soprattutto attraverso forme repressive: in caso di comportamento inadatto, i bambini sarebbero stati rapiti da esseri soprannaturali.

La spiegazione di certi fenomeni non andava cercata, bastava ricorrere al magico per ottenere l’effetto desiderato. C’è anche da dire che le persone vivevano e raccontavano storie, frutto proprio di quel mondo comunitario che andava preservato nel suo ordine tradizionale.

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