Cilento: l’immaginario e le nuove comunità
di Pasquale Martucci
Ciò che caratterizza oggi le nostre società è preservare il passato, la cultura, per far scoprire risorse e ricchezze, materiali e immateriali, avendo però ben presente che l’identità di una terra non può essere confinata alla conservazione dell’esistente ma proiettata verso il futuro.
Questo argomentare mi induce a valutare una identità che parte dai forti fondamenti e, attraverso l’intelligenza di uomini che guardano lontano, si evolve come è giusto che sia per prendere dal vecchio ciò che occorre per progredire. Anche perché la cultura popolare è una grande risorsa, ed allora è necessario far sviluppare un atteggiamento di rispetto, da intendere non come consumo tout-court ma come meditazione, contemplazione, tentativo di riguadagnare il rapporto con la natura.
Lo spunto di queste mie riflessioni parte da tre saggi che ha scritto lo studioso cilentano Ernesto A. Del Mercato: “I Cilentani”; “Lettere a mio nonno”; “Venere coi tacchi”, che rappresentano un interessante approccio intorno al concetto di cilentanità e cultura popolare, quella che ha attraversato tutto il novecento fino agli ultimi due decenni del secolo scorso. (1)
Del Mercato è un attento studioso del Cilento ed ha realizzato importanti contributi per la valorizzazione del territorio. Scrive ne “I Cilentani”: “La mia venuta nel Cilento mi mise di fronte a un territorio e una cultura molto differente dalla città. In città si pensa che il paese sia come una città ma piccola piccola il che non è vero, il cittadino quindi vi rintraccia delle differenze che giudica degenerazioni o anomalie su cui non si sofferma dato il poco tempo in cui vi soggiorna”. (2)
I pensieri dell’autore si indirizzano alla metà degli anni ottanta, non senza compiere considerazioni su periodi precedenti: il dopoguerra, ad esempio, per raccontare del tempo presente differente da quello vissuto una volta, quasi a voler dire: ciò che era bello lo era perché passato.
Si tratta di interrogarsi sulle forme di vita quotidiana, che dal passato passano al presente, e viceversa, che possono essere ricondotte entro un immaginario sociale che caratterizza sempre ogni forma riflessiva. Quell’immaginario è da intendere come spazio e tempo vissuto, fatto di simboli, memorie, racconti di una realtà quasi immutabile, che riconduce ai “cunti”, ovvero la massima manifestazione dell’immaginario: l’espressione che introduce un tipo di comunicazione usuale, non diretta, attraverso la concettualizzazione, attraverso la razionalizzazione dell’esperienza propria e altrui.
Cos’è l’immaginario?
La tendenza delle nostre società è di considerare la vita delle popolazioni attraverso evidenze quotidiane, un modo di allargare gli orizzonti oltre il livello razionale, oltre quella che alcuni reputano la “verità” dell’esistenza. E ciò perché la società non può fare a meno di considerare nella sua complessità tutti gli aspetti di vita materiali e immateriali, che riguardano il pensiero magico, il riconoscimento della cultura antropologica, mettendo in connessione una infinità di variabili.
Uno dei sociologi che meglio ha affrontato l’immaginario è Michel Maffessoli, che ha rilevato come esso contenga la vita vera, così come aveva sostenuto, nella seconda metà del novecento, l’antropologo Gilbert Durand. Tutto ciò considerando il “dovere dello stato” umano di confrontarsi con le sue origini ancestrali, la “dimensione dinamica” del mito. Lo stare insieme sarebbe un sentimento di appartenenza e il reale sarebbe reso possibile nel confronto con irreale, fantasmi, sogni, miti e simboli, che strutturano la vita sociale. (3)
Nell’area cilentana, gli studi storico-sociali dimostrano l’importanza di una commistione di vita materiale e immateriale che condiziona atteggiamenti, comportamenti, vita comunitaria, senso di appartenenza ed attaccamento al territorio. Si tratta delle comunità e degli aspetti tradizionali, le manifestazioni della vita quotidiana e le forme comportamentali, gli elementi rituali e le espressioni devozionali, i momenti e le mitologie festive. Tutto ciò può essere definito il Genius loci, lo spirito, l’anima, l’atmosfera che si respira, ma anche i colori, gli odori, i suoni, il linguaggio della popolazione, il silenzio. È questo un aspetto che riguarda il rapporto tra l’ambiente, l’uomo e le sue abitudini: indica il carattere di un luogo, legato a doppio filo agli elementi che in esso si affermano, includendovi le opere materiali o immateriali, gli enti e gli individui cui si associa un legame storico-culturale che rende unica e immediatamente riconoscibile un’area. (4)
Le riflessioni non possono prescindere dai rapporti comunitari centrati sulle differenze uomo/donna; sulle vite e i caratteri dei cilentani; sulle tradizioni e la ritualità; sul ruolo della donna del passato, che potremmo individuare nella efficace concettualizzazione di Luigi Leuzzi (5): “la grande Madre”, rilevata attraverso riscontri sul campo ed un’indagine mito-archeologica, oltre che psicologica, filosofica e antropologica. Si tratterebbe di un nume femminile che propone un sistema matriarcale.
Facendo un parallelismo con riscontri molto più recenti, si può verificare la congruità di tale tesi in quanto la devozione religiosa e l’attaccamento alle Madonne hanno pervaso la cultura di questa terra, con caratteri al femminile presenti già in una cultura millenaria. La donna nel territorio, con l’avvento della cultura cerealicola, quando la popolazione diventa stanziale, organizzava la sua dimora e si occupava della cura dei suoi familiari per costruire la comunità.
Qui entriamo nella logica del mito, come riduzione narrativa di momenti legati alla dimensione del rito, all’esperienza soprattutto religiosa. Il mito non è altro che un racconto: “c’è una storia da presentare, che ha tratti terribili ma anche risvolti patetici e sorridenti, ci sono dei personaggi in azione, una trama che si snoda”. (6)
Ma la mitologia è spesso intesa come il pensiero dei pensieri, con il potere di generare le nozioni fondamentali della scienza e le principali forme della cultura. Durkheim sostenne l’importanza delle “rappresentazioni collettive”, che si manifestavano attraverso credenze e riti, sacro e profano, magia e religione. I miti appartengono al “sistema delle credenze” e si esprimono attraverso il “sistema rituale”, con cui stanno in continua relazione. (7)
Il mito delinea una concezione sacrale del reale, una concezione che, rivestendo di mistero e di potenza gli elementi del cosmo, si pone agli antipodi della nostra cultura secolarizzata e della sua pretesa di capire tutto, di spiegare tutto, di misurare e quantificare ogni cosa. È conoscenza del reale e trasmissione di generazione in generazione: è tradizione.
L’uomo ha dovuto scontrarsi concretamente con la cruda realtà della vita, come l’esperienza tragica del dolore, visto come un qualcosa di provocato da un agente esterno. In questo contesto, si realizza l’azione propiziatoria, ovvero fare in modo che Dio operi a nostro vantaggio, e di conseguenza ha rilievo utilizzare doni o sacrifici per conformarsi alla sua volontà. Ed allora è essenziale il ricorso alle pratiche devozionali, per chiedere la protezione del Santo che deve difendere la vita quotidiana e quella materiale che ha le sue regole.
Nel Cilento, si è sempre parlato del culto delle sette sorelle, dei santuari dedicati alla Madonna. Fino a qualche anno fa alcuni studiosi hanno cercato di ricondurre alle sette Madonne il modo di aggregare “un’area culturale omogenea”. Si tratta della visibilità da una certa prospettiva di una serie di Santuari (per l’appunto sette) o meglio della consapevolezza che esistono e servono quasi a proteggere le popolazioni dalla presenza delle avversità per la loro collocazione sulle vette di monti e colli. Le Madonne considerate sono: la Madonna del Sacro Monte (Novi Velia-Monte Gelbison); la Madonna del Granato (Capaccio-Monte Calpazio); la Madonna della Stella (Sessa C.to-Monte Stella); la Madonna della Neve (Piaggine, Sanza-Monte Cervati); la Madonna della Pietrasanta (S. Giovanni a Piro-Monte Pietrasanta); la Madonna della Civitella (Moio della Civitella-Monte Civitella) e la Madonna del Carmine (Catona-Monte del Carmine). (8)
Questa credenza è riconducibile alla simbologia riguardante il numero sette, considerato anche dal Cristianesimo particolarmente importante. Alcuni Vangeli Apocrifi narrano di Anna che dopo sette mesi partorì una bimba; il numero sette sono i giorni della settimana, ma anche l’ultimo giorno della Genesi, “indica un ciclo compiuto ed un rinnovamento positivo”, il ventuno è la perfezione in quanto risultato della moltiplicazione del sette con il tre (attributi della Sapienza). Ma il sette è anche il numero de: I sette dolori della Beata Vergine Maria (oggi la ricorrenza si chiama Beata Vergine Maria Addolorata). Essi sono: “la fuga in Egitto”, “la scomparsa di Gesù per tre giorni fino al ritrovamento nel tempio”, “il viaggio del Cristo con la croce fino al Calvario”, “la Crocifissione con l’addio sulla croce”, “la morte del Figlio”, “il momento in cui il Figlio è staccato dalla croce” e “la sepoltura”. (9)
Se nel Cilento la vita quotidiana si svolgeva tra lavori nei campi, pratica religiosa e intimità della famiglia, l’educazione dei ragazzi e delle ragazze avveniva nella comunità familiare e di villaggio, assimilando i costumi, le credenze, i sistemi di vita e di lavoro tramandati da generazioni.
Al centro della casa vi era il camino, fuculàre, intorno a cui si svolgeva la vita domestica, con una caldaia piena d’acqua posta sul fuoco. Lì si tramandavano le tradizioni e si educavano i componenti la famiglia attraverso principi imprescindibili: amore coniugale e filiale, legami di solidarietà ed unità dell’intera comunità. Tutta la famiglia però doveva privilegiare il lavoro, quello delle donne, degli uomini e degli stessi bambini che venivano avviati alla vita fuori di casa. Il lavoro prevalente era contadino; poi c’erano artigiani e commercianti. Si coltivavano piccoli terreni, si allevavano pochi animali: era una fatica quotidiana. A volte la famiglia aveva un piccolo campo di proprietà, ma nella stragrande maggioranza dei casi offriva la sua manodopera a proprietari di più estese estensioni di terreno. La mattina il contadino si cibava di verdure, pomodori, formaggio; a mezzogiorno un piatto a base di legumi, patate, qualche pezzetto di salame, qualche fico secco o castagne, un bicchiere di vino. L’uomo e la donna avevano compiti diversi. Il primo caricava l’asino con tutto l’occorrente per andare al lavoro, si faceva precedere dall’animale; la donna svolgeva le faccende domestiche, si occupava di casa e figli, preparava la colazione, la riponeva in una cesta da portare in campagna. Conduceva con sé le capre e a volte un maialino; portava una sporta sulla testa dove c’era deposto il bambino, una cesta era tenuta sotto un braccio. Il marito zappava, tagliava l’erba, mieteva il grano, raccoglieva frutta; la moglie aiutava, si occupava del figlio, preparava da mangiare per tutti, raccoglieva verdure per il pranzo e la cena. Dopo il lavoro, l’uomo badava alle necessità dell’asino e poi a volte si recava all’osteria per bere un bicchiere con gli amici; la donna era impegnata nelle pulizie di casa, rammendava la biancheria, si occupava dei figli, degli animali (capre, mucche, maiale). Poi qualche chiacchiera con le vicine e la gestione dell’ospitalità. La sera il marito alticcio di ritorno dall’osteria litigava con la moglie, prima di soddisfare velocemente le sue voglie e prendere sonno. (10)
Il presente ha ampiamente modificato le cose: non c’è possibilità di ritornare all’antico, né di conservare l’esistente. Ma è anche importante sostenere che l’affermazione del nuovo e l’abbandono del passato è questione del tutto fuorviante, in quanto non si lasciano mai del tutto le cose date, così come non è mai tutto interessato al nuovo: c’è un concatenarsi di condizioni, un integrarsi di ciò che accade su un substrato apparentemente consolidato.
Ed allora, quale Cilento può mantenere vive le memorie del suo passato per proiettarle verso il futuro?
Nelle riflessioni di del Mercato emerge una forte critica all’idea del consumo che dovrebbe essere differentemente indirizzata: parlo del “consumo culturale”. (11) Se i membri di una comunità sono impegnati nella costruzione del mondo in cui vivono, per fare questo utilizzano i beni creati in conformità con il progetto della cultura di riferimento. I principi sono le idee, che permettono di distinguere, classificare e collegare i fenomeni culturali, considerando “il consumo in una dimensione etica”, che presuppone una maggior richiesta di qualità della vita includendo l’interesse per l’ambiente.
Qualcuno ritiene importante il ruolo dei mediatori culturali che potrebbero essere efficacemente utilizzati per la promozione dei beni territoriali, con l’auspicio che la cultura possa investire un pubblico più ampio. Come un viaggiatore che stimoli la propria curiosità per osservare diversità e uguaglianze, ma anche bellezze, paesaggi, beni storico-archeologici, trasformando il contesto in qualcosa di personale, ecco che il consumatore di cultura può interpretare le risorse territoriali attraverso la memoria e le esperienze accumulate. Del resto Baudrillard, a proposito della forma di differenziazione sociale ha proposto una società basata su forme culturali e simboliche, anche per via di una natura relazionale della fruizione dei beni culturali. (12)
Su queste basi, occorre ripensare una nuova identità cilentana, compiendo un passo avanti e affrontando nuove e più innovative ricerche in funzione della salvaguardia e della divulgazione, senza intenti nostalgici, ma con l’attenzione di utilizzare le nuove tecnologie a supporto della fruizione della cultura. Qui devono intervenire le nuove generazioni che devono riscoprire il rapporto con il proprio passato, perché non si può capire il presente se non lo si confronta con ciò che l’umanità ha costruito nel suo sviluppo storico.
È opportuna, dunque, una nuova progettualità territoriale che metta in gioco la capacità creativa ed auto-organizzativa delle comunità locali, che devono fungere da laboratori di sperimentazione per un quadro strategico che esplicitamente ricerca la propria legittimazione nella capacità di innescare lo sviluppo sostenibile delle nostre comunità, che oggi rischiano l’abbandono e la dimenticanza.
Per tutte queste ragioni ho trovato interessanti negli spunti di del Mercato alcuni passaggi significativi sulle tradizioni e la cultura popolare, perché il passato è sempre memoria storica ed in quanto tale va preservato.