24 Novembre 2024

Sguardi sociologici 2 / Osservare il margine

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di Pasquale Martucci

Il secondo sguardo si occupa del concetto di margine, periferia, distanza di un territorio dal suo centro. Il margine e il centro sono concetti continuamente riconfigurati, per la mobilità degli esseri umani che passano da una zona liminale all’altra, vivendo forme di marginalità sociali, che necessariamente mettono in discussione norme e regole acquisite.

Il limen, che rievoca il confine (da finis che significa “solco”, per stabilire delle regole nella comunità) sembra un dispositivo di separazione o di passaggio: confine, margine o soglia, un elemento di delimitazione ma anche di relazione. Senza la presenza di una linea di demarcazione, non esisterebbero categorie di pensiero come il dentro e il fuori, l’inclusione e l’esclusione, l’interno e l’esterno.

Il margine è la periferia, ciò che è lontano dal centro, e ciò che viene poco considerato perché il centro sembra essere la vita, perché la periferia è incompiutezza, distanza.

Eppure in quel margine si delinea un mondo sociale che non è considerato, sarebbe meglio che non ci fosse, perché ospita chi è marginale, chi non è funzionale ai desideri delle società moderne, occidentali, che dovrebbero essere sempre proiettate verso il progresso e per nulla attente a chi non si adegua allo stesso, alla perfezione, alla vita ideale.

Seguendo questa argomentazione, l’imperfezione deve essere rimossa per un mondo auspicato, ambito.

Il quesito è: perché volgersi a quel margine, a quelle brutture?

È lì che si annidano tutti gli espulsi dal centro, i brutti e i cattivi, coloro che devono necessariamente stare distanti. Facendo così si nota tuttavia un ampliamento del margine, delle periferie, sempre meno lontane dal centro, che premono verso di esso non tanto per entrare, o forse anche per pensare di farlo, ma per trovare visibilità, per dire: ci siamo anche noi, e siamo tanti e vogliamo contare!

La dimensione globale relega sempre più ai margini, produce un centro sempre più ridotto: è svuotato della presenza di quella popolazione attiva, diversa, differente, che dovrebbe portare vita, progresso, sviluppo.

Sempre meno persone stanno al centro, che non cerca di includere ma di escludere, e sempre più ai margini, dove c’è ora la vita vera, affollata, periferica, distante.

La vita del centro/centro è ridotta, crede di essere autosufficiente, ma rischia di morire, perché si svuota, è occupata da anziani. Percorrere il centro è percorrere il vuoto, se non è invaso dai periferici, dai marginali, da quelli che vivono le bruttezze e le violenze.

Brutto è però verità, perché quest’ultima è nella bruttezza, marginalità, desolazione, periferie. Nella bruttezza c’è verità e la verità è sempre bellezza, come ha affermato con grande acume il regista Damiano D’Innocenzo. Dunque, parlare di cose brutte significa una verità sociale non quella dettata dall’aspirazione ad una vita finta, ed immergersi in paesaggi dimenticati, opachi, permette di conoscere la realtà.

In questo mio ragionamento, nel margine troviamo la vita vera, che è lasciata degradare, piombare in uno stato di perenne lotta di tutti contro tutti; è una proiezione in chiave moderna dello stato di natura. Osservando le fotografie del sociale, si notano grandi agglomerati che creano sempre più periferie, precarietà, degenerazione.

Tuttavia la vita oggi è questa, e si è ritornati quasi al punto di partenza.

Un tempo dalle parti rurali, periferiche, si andava in città per migliorare le condizioni di vita; ora le città cacciano gli esseri umani e li spingono verso la marginalità forse credendo di poter così affermarsi e stare in una condizione di benessere. Eppure sono gli stessi centri che, svuotandosi ed assottigliandosi, si riducono perché gli esseri umani andando via lasciano palazzi e costruzioni all’abbandono: una popolazione poco attiva e reattiva è poco portata all’azione e alle relazioni. Eppure sono le relazioni, anche quelle più difficili, che permettono di conoscere nuovi mondi, nuove identità, vite, diversità, contraddizioni. Sono i problemi e le difficoltà che fanno crescere e portano il cambiamento.

Tornando al territorio oggetto di studio, il Cilento, devo asserire che si tratta certamente di un territorio marginale, anche se troviamo un’altra forma di marginalità. È quella di un disagio territoriale, dove non ci sono bruttezze o violenze, eppure c’è una popolazione che diminuisce, condizioni economiche precarie, ritardi nella realizzazione di progetti ed iniziative, che lo relegano in una condizione di abbandono, diaspora: i paesi si svuotano, la popolazione invecchia, l’economia langue, nonostante il territorio custodisca risorse storico-culturali importanti che andrebbero adeguatamente valorizzate, sperando magari di far tornare coloro che sono andati via.

Queste osservazioni di un margine contraddittorio e legato a differenti disagi e forme sociali precarie, fanno comunque pensare che la marginalità è quella delle differenze e ricomposizioni. In tal senso, la società va intesa e considerata come coacervo di tanti problemi da affrontare, per permetterci di costruire le nuove dimensioni del futuro.

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