Quincy Jones: l’animo gentile che capiva la Musica
Cultura
di Fabrizio Ciccarelli
Quincy Jones: 26 Grammy, l’inizio giovanissimo con Ray Charles, a 18 anni trombettista con Lionel Hampton già si scoprì più bravo a comporre che a suonare, arrivando ad illuminare il celebre disco di Helen Merril col grande Clifford Brown; poi Count Basie, Dizzy Gillespie e Sarah Vaughan, poi gli studi serissimi con Olivier Messiaen, a Parigi ad arrangiare per Aznavour e Jacques Brel, a New York con Frank Sinatra e Tony Bennett, le colonne sonore (una su tutte nel 1964 L’uomo del banco dei pegni di Sidney Lumet), in Italia (curiosità: Lettera a Pinocchio di Tony Renis!), per essere definitivamente scelto come autore di colonne sonore di film importanti (La calda notte dell’ispettore Tibbs di Norman Jewison, La vita corre sul filo di Sydney Pollack, Getaway di Sam Peckinpah, fino a Il colore viola di Spielberg), Thriller di Michael Jackson e con, tra gli altri, Lionel Ritchie, Stevie Wonder, Paul Simon, Tina Turner, Billie Joel, Diana Ross, Al Jarreau, Bruce Spingsteen, Smokey Robinson e Michael Jackson su progetto di Harry Belafonte per il successo planetario We Are The World per i poveri d’Africa, perché egli è stato un benefattore senza mai mettersi in mostra, merito inestimabile.
Cosa scegliere da ascoltare? Big Band Bossa Nova (Mercury 1962, con brani di Mingus, Jobim, Vinicius de Moraes e Lalo Schifrin), Mellow Madness (A & M 1975, con la cover My Cherie Amour di Stevie Wonder), Back on the Block (Qwest 1989 con Davis, Joe Zawinul, Barry White, George Benson, Ray Charles, Dionne Warwick e Chaka Khan), Miles & Quincy Live at Montreux (WBros 1993, eccellente tracklist): ma è solo una questione più che oziosa, visto il numero di dischi cui partecipò come band leader, esecutore o deus ex machina.
Torniamo all’inizio: Quincy Jones era un artista coraggioso che non amava i ritocchi di genere, fu un intelligente portatore di buon gusto tra pop, soul, funk e jazz, con un impronta sempre elegante che, se da una parte ebbe il gradimento del grande pubblico, dall’altra esibì un passo tecnico ineccepibile nella costruzione di armonie di eleganza superiore, lontane dalle asperità convulse delle Blue Notes rabbiose dei Neri in Rivolta, note alle quali pur si sentì legato fin dagli esordi per “genetica induzione”. Oltrepassando tale impasse storico, si gettò nella Black Music di Thriller, album che non avrebbe mai raggiunto la vetta dei dieci album più venduti nella storia della musica senza il suo decisivo contributo, causa prima il suo Smooth così piacevole nelle soluzioni ritmiche e orchestrali, peraltro prese a modello da Miles Davis per Human Nature (You’re Under Arrest, Sony 1985, ove l’accattivate Slow di Jackson viene trasformato in New Jazz secondo lo straordinario estro del Dark Magus) e da tantissimi interpreti di una Black Music che, tra anni 60 e 90, intese creare novità per quelle progressive elusioni dal “ghetto style” soprattutto per merito di Marvin Gaye e Prince, che avrebbero condotto il Melting Pot della Disco Music e del Funky verso il piacere dell’ascolto. Gran parte del merito in questo va ascritto a Quincy Jones, pur se va riconosciuto che tale patrimonio spesso è stato scialacquato, talora persino da lui stesso per cadute di gusto conseguenti ad un aneurisma cerebrale che ne moderò (come non capirlo?) il vigore esistenziale, talaltra per medesimo amor del dollaro da suoi superficiali epigoni che non hanno voluto o saputo intendere i suoi “fumi d’arte”, figli di quel brancolate “yankee style” che ne ha divorato la preziosa eredità. Ebbe a dire in una nota intervista: «Le categorie non mi interessano, è tutta musica». Nulla di clamoroso, solo una verità da accettare senza indugi, dal 14 marzo 1933 al 3 novembre 2024.