23 Dicembre 2024

Giovani ed emigrazione: la percezione del fenomeno

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Giovani ed emigrazione la percezione del fenomeno di Pasquale Martucci

di Pasquale Martucci

In questo scritto, mi occuperò dell’emigrazione giovanile che caratterizza in maniera diffusa l’intero Paese, confrontando le ricerche realizzate da vari istituti accreditati, che ai numeri hanno associato le interviste. In tal modo, è stata rilevata anche la percezione del fenomeno, una narrazione che spesso è anche frutto di ciò che emerge dai social media e dal senso comune.

Sono stati consultati i risultati di indagini e interviste realizzate da: I. Diamanti, La gioventù: una generazione in(de)finita, “Rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza sociale in Italia e il Europa”, Demos & Pi e Fondazione Unipolis, XIV edizione, giugno 2022; Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia – Rapporto Giovani 2024, Il Mulino, aprile 2024; AA.VV., Giovani 2024: il bilancio di una generazione, Eures – Ricerche Economiche e Sociali, in collaborazione con il Consiglio Nazionale dei Giovani e l’Agenzia Italiana per la Gioventù, aprile 2024.

La premessa è affidata alle considerazioni sulle dinamiche storico-sociali ed economiche italiane, considerando la strutturale incapacità del nostro Paese di offrire opportunità di lavoro qualificato e stabile. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, a fronte di un aumento considerevole del numero di laureati, la domanda di lavoro non manuale qualificato da parte dell’economia italiana è rimasta sostanzialmente stabile e su livelli relativamente bassi. Questo ha generato un surplus di laureati che faticano a trovare un lavoro corrispondente al loro livello di istruzione. Nello stesso periodo, per i giovani laureati sono fortemente aumentati i rischi di instabilità e frammentazione delle carriere lavorative, soprattutto nei primi anni successivi all’uscita dal sistema scolastico. Le scarse opportunità di buona occupazione sono anche distribuite in maniera fortemente diseguale secondo l’origine sociale e il territorio di appartenenza.

Le migrazioni comportano sempre dei costi, di natura economica ma anche psicologica e sociale: c’è la progressiva riduzione dei ritorni occupazionali dei laureati, ma anche il coinvolgimento nel processo migratorio di molti individui con media e bassa qualificazione, sia in Italia che in altri paesi dell’Europa meridionale.

Il nostro è uno tra le nazioni con maggiori squilibri generazionali: ci sono le difficoltà dei giovani nella transizione scuola-lavoro e dunque nel passaggio verso la vita adulta; ci sono poi la fragilità dei singoli, i grandi mutamenti in atto, i limiti delle politiche pubbliche che aumentano il rischio di polarizzazione tra coloro che sono capaci di cogliere nuove opportunità e altri che scivolano verso i margini. La riduzione quantitativa dei giovani fa però crescere l’attenzione nei loro confronti e con essa la consapevolezza della necessità di investire sul successo formativo e sulla solidità dell’ingresso nella vita adulta. Ma servono esperienze che incoraggino a sperimentarsi positivamente come soggetti in grado di generare senso e valore nel loro essere e fare nel mondo. Gli spazi per i giovani in cui potersi sentire al proprio posto sono quelli del lavoro, della casa, della formazione di una propria famiglia, ma anche quelli strategici della transizione digitale e della transizione verde a cui corrispondono sia nuovi rischi sia nuove opportunità. (Alessandro Rosina, Istituto Toniolo, La condizione giovanile in Italia – Rapporto Giovani 2024)

L’Italia si caratterizza come uno dei paesi economicamente avanzati dove più forte è l’influenza della famiglia di origine sui destini occupazionali dei figli, a prescindere dal livello di istruzione da questi raggiunto. Le ragioni di questo stato di cose risiedono nelle caratteristiche di un sistema produttivo basato su piccole imprese in settori a basso contenuto di capitale umano, in cui l’importanza dei legami personali e familiari è centrale nei processi di reclutamento. Ciononostante, gli italiani entrati nel mercato del lavoro, durante gli anni del “miracolo economico”, avevano sperimentato un deciso miglioramento nelle condizioni di lavoro e di vita, rispetto alle generazioni precedenti. E fino alla prima metà degli anni Ottanta una laurea ha continuato ad assicurare un “buon lavoro” sia in termini di stabilità che di qualificazione professionale. Questi trend, tuttavia, si sono arrestati tra i più giovani, proprio quando i figli dei baby boomers iniziavano a investire in istruzione universitaria nell’aspettativa di raggiungere condizioni di vita pari (o superiori) a quelle dei propri genitori. (I. Diamanti, La gioventù: una generazione in(de)finita)

Analisi empiriche mostrano che la scelta di emigrare dei laureati italiani è associata a indubbi e sostanziali vantaggi, in termini di una maggiore probabilità di svolgere un lavoro qualificato, soddisfazione per il lavoro e salari più elevati, rispetto a coloro che, terminati gli studi, sono rimasti in Italia. Tuttavia, queste evidenze, così come le condizioni strutturali che producono una mancanza oggettiva di opportunità di buona occupazione nel nostro Paese, non sono di per sé sufficienti a fornire una spiegazione esaustiva della nuova emigrazione, che al contrario va ricercata anche nella percezione del fenomeno da parte delle nuove generazioni.

In realtà, le decisioni individuali di lasciare il Paese sono solo in parte determinate da valutazioni razionali sui costi e i benefici della migrazione, essendo influenzate anche da immaginari, ovvero rappresentazioni sociali condivise sia del luogo di origine che, soprattutto, delle potenziali destinazioni. Nel caso della nuova emigrazione degli italiani, un ruolo decisivo nel dare forma a tali rappresentazioni è svolto dai social media.

Prima della partenza, i paesi di destinazione, e l’Unione Europea in generale, sono descritti dagli intervistati (lo attestano vari istituti di ricerca) come uno “spazio di libero movimento”.

I futuri emigranti vedono lo spostamento verso altri paesi dell’Unione Europea come una scelta facilmente reversibile, e anche per questo i tempi di preparazione alla migrazione sono relativamente rapidi, soprattutto alla luce di una percezione di bassi costi ad essa associati.

A facilitare ulteriormente la decisione, e ad abbassarne ulteriormente i costi percepiti, contribuiscono specifiche rappresentazioni positive non già dei paesi di destinazione nel complesso, ma delle grandi “città globali” europee: Londra e Berlino, tra le mete preferite degli emigranti italiani, sono descritte come realtà “aperte”, “vivaci” e “dinamiche”. Ed è emerso, a questo proposito, il ruolo centrale dei social media, in particolare dei gruppi Facebook (“Italiani a Londra”) che, da un lato, fungono da reti per ottenere informazioni su come trovare lavoro o un luogo in cui vivere da persone già espatriate, dall’altro, rappresentano dei catalizzatori di narrazioni positive nei confronti dei luoghi di destinazione descritti come esperienze di successo.

Fanno da contraltare a queste rappresentazioni positive le rappresentazioni molto negative dei paesi di origine, descritti come senza speranza. Tali rappresentazioni sono rafforzate dalla crisi economica: si fa esplicito riferimento alla narrazione mediatica della grande recessione e delle sue conseguenze tra i fattori che influenzano la decisione di emigrare. Essa nasce spesso dall’incrocio tra narrazioni negative del paese di origine e narrazioni positive dei paesi di destinazione visti come “Eldorado” di opportunità, favorite dai social media e generatrici di grandi aspettative anche tra i lavoratori con basso titolo di studio. Aspettative che spesso si scontrano con la realtà di lavori precari e poco qualificati che non sempre apportano reali miglioramenti nelle condizioni lavorative e di vita.

Più che dalla mancanza di lavoro, la decisione di emigrare viene motivata dalla diffusa precarietà e da condizioni di lavoro considerate inaccettabili, non solo da un punto di vista economico: la mancanza di meritocrazia, infatti, viene chiamata in causa spessissimo dai futuri emigranti. Italia e Spagna sono descritti come paesi che non riconoscono il talento, soprattutto a causa delle pratiche nepotistiche di reclutamento.

Tuttavia, è importante sottolineare come questa narrazione sia spesso il frutto di una percezione indiretta e astratta di “mancanza di meritocrazia”, senza che le persone abbiamo sperimentato direttamente episodi di nepotismo.

Le grandi aspettative che gli emigranti hanno non appena giunti nei paesi di destinazione trovano spesso un riscontro positivo tra quanti avevano già un’offerta di lavoro soddisfacente prima di emigrare. È questo un caso piuttosto comune tra i laureati, che prediligono canali istituzionali di ricerca del lavoro, soprattutto tra quanti avevano già avuto un’esperienza all’estero, ad esempio un Erasmus durante gli studi universitari. Ma in molti altri casi dopo la partenza non sono infrequenti esperienze di lavoro nell’economia informale, in settori poco qualificati e in condizioni di lavoro disagevoli. È questa una situazione molto comune tra i migranti con basso titolo di studio, per i quali svolgono un ruolo decisivo i contatti informali con amici e parenti che sono già emigrati in precedenza.

Anche occupazioni non migliori di quelle che i migranti a medio-bassa qualificazione avrebbero potuto trovare in Italia sono riviste alla luce della narrazione positiva che circonda i paesi di destinazione. Esse, infatti, sono interpretate come utili esperienze nella speranza di poter successivamente migliorare la propria condizione, in contesti come Londra e Berlino, ricchi di opportunità e in cui i datori di lavoro favoriscono il “talento”.

Ad ogni modo, questa gioventù in(de)finita, senza limiti precisi, presenta diverse contraddizioni. In primo luogo, sulla prospettiva e sullo sguardo verso il mondo e verso il futuro: i giovani, infatti, si sentono (e intendono stare) saldamente radicati sul territorio, nella loro città e nella loro realtà locale dove hanno famiglia e legami sociali. E ciò permette loro di non sentirsi spaesati. Ma sono, al tempo stesso, una generazione “altrove”, proiettati nel mondo, verso l’Europa, molto più della popolazione anziana dalla quale si sentono frenati e vincolati. (I. Diamanti, La gioventù: una generazione in(de)finita)

Gli intervistati sembrano quindi affermare che, se la società non accorda ai giovani la possibilità concreta di credere nella propria autorealizzazione, non potranno certo essere loro i protagonisti di un cambiamento e di una rinascita sociale che, seppur necessaria, non riescono a determinare. Non potranno dare al Paese nuove energie ed essere nuovi cittadini, se continueranno a rischiare di rimanere intrappolati in una gabbia sociale che non consente a tutti una piena realizzazione del proprio potenziale. C’è la percezione di un fallimento, ricondotta a quella “distrazione strutturale” (Giovani 2024, Eures – Ricerche Economiche e Sociali) delle Istituzioni nei confronti dei giovani, legata alla continua rincorsa alle emergenze che sembra condizionale i principali processi decisionali del Paese, lasciando in secondo piano la costruzione di direttrici strategiche e di prospettive per le giovani generazioni.

Quella giovanile è la generazione dell’ospite inquietante, del nichilismo dello sguardo del mondo adulto che non riesce a penetrare le esigenze e le pulsioni, il bisogno di sicurezza e la ricerca di affermazione. È uno sguardo superficiale e approssimativo, incapace di leggere la complessità, le contraddizioni e gli inciampi che inevitabilmente accompagnano la quotidianità di un giovane nell’interazione con il mondo esterno. (U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, 2017)

L’elemento di percezione del fenomeno, ad ogni modo, è confermato da una condizione oggettiva: la difficoltà ad investire nelle migliori professionalità, a valorizzarle ed a permettere loro di contribuire allo sviluppo economico ed al miglioramento democratico di questo Paese.

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