15 Gennaio 2025
Consapevolezza e condivisione pasquale Martucci

di Pasquale Martucci

Ha sostenuto il sociologo Alain Touraine (In difesa della modernità, Cortina 2019) che le società si caratterizzano per forme di modernità endogena, in cui le risorse degli attori sono nella società di appartenenza. Se la vita del passato è stata garantita dall’ordine costituito, oggi gli attori devono basare la loro fiducia nel gran numero di possibilità aperte.

Se oggi la nostra situazione è governata dalle leggi dell’economia, dobbiamo riconoscere che, pur essendo creature naturali, siamo soprattutto creatori di noi stessi, delle trasformazioni e della storia.

L’assunto di partenza è che “la modernità è cambiamento” e il mondo dell’azione sociale è quello della libertà, creatività e modernità, in cui sono importanti:

1) la creazione e la trasformazione di una civiltà materiale;

2) l’associarsi a questa pratica della rappresentazione di una coscienza della creatività e di una società definita dalla storicità;

3) la conflittualità che oppone possidenti e non possidenti, secondo diverse modalità (culturali, sociali ed economiche) in ogni tappa della modernità.

Si tratta di favorire l’interdipendenza tra questi elementi, che producono le azioni che le moderne società esercitano su loro stesse e su ciò che le circonda (relazioni, conflitti, azioni, creazione, cambiamento, temi ecologici).

Ed oltre: le società moderne devono acquisire quel livello di soggettivazione riconoscendo tutti i livelli dei comportamenti umani, reintroducendo i sentimenti, le relazioni e il riconoscimento dell’altro in quanto soggetto.

Il sociologo francese crede che proprio la centralità del soggetto possa ridare senso e valore alla modernità. Il cambiamento è rappresentato dallo sforzo dell’individuo di diventare attore, di mettersi al servizio della sua esigenza e del suo desiderio “di resistere al proprio smembramento in un universo in movimento, privo di ordine e di equilibrio”.

Si tratta di un “soggetto culturale”, inteso come attore che ha acquisito conoscenza e consapevolezza, in grado di ritornare padrone del proprio destino, capace di cambiare la propria realtà a partire da sé e in relazione con gli altri.

Michel Foucault si è occupato di soggettivazione. Il filosofo sosteneva che si era determinato il passaggio dal soggetto alla soggettività (una posizione, un punto fermo) e poi alla soggettivazione che sposta il discorso “dall’essere al fare”, nella dimensione della pratica.

Per soggettivazione si intende una serie di operazioni che servono a definire “un’identità, la nostra identità di soggetti”. Mettendo in comune le differenze tra soggetti, si può costruire qualcosa che abbia a che fare con il comune.

Queste soggettività sono legate a pratiche, alla “dimensione del fare, che non è solo un agire secondo principi o valori ma un inventare, letteralmente un inaugurare”.

Questo approccio di Foucault include i percorsi seguendo i quali il soggetto viene costituito “nella sua identità”, ed è portato a pronunciare un certo “io sono”. Il soggetto è “discorsivamente” determinato, attraverso una vera e propria costruzione, mai fuori da meccanismi costitutivi di natura discorsiva, frutto di pratiche, storicamente determinate, il cui scopo è “la libertà in quanto governo di sé e degli altri”. (M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, 2003; G. Deleuze, La soggettivazione. Corso su Michel Foucault (1985-1986) Vol. 3, Ombre Corte, 2020)

Questo l’elemento legato a soggetto, soggettività, soggettivazione, in cui entrano in gioco le istanze del soggetto, nei suoi spazi di libertà, ma calato in pratiche comuni che restano quelle relazionali con l’altro, il territorio e l’ambiente.

Mi sembra importante un ruolo attivo di soggetti che si confrontano e vivono il loro contesto di riferimento. È l’ambito relazionale che fa compiere il passaggio verso la modernità, verso la soggettivazione.

Per fare un esempio concreto, alcuni anni fa, l’antropologo Paolo Apolito si riferiva alle feste come elemento che “ti permette di entrare in un’unità sociale che ti accoglie, ti prende e trascina in un tutt’uno che armonicamente fluttua nello spazio delle azioni collettive”. Si tratta dell’esperienza del noi, che pare superare lo stesso presupposto di manifestarsi in luoghi/non luoghi. Nelle feste spontanee, ci si sente unito all’altro “in una effervescenza di intenzionalità condivise e in una fortissima percezione del noi”, di un noi condiviso. (P. Apolito, Ritmi di feste, Il Mulino, 2014)

In un saggio di qualche anno fa (P. Martucci, Comunità in festa. Forme e significati degli eventi festivi nel passaggio dal noi comunitario al noi relazionale. Una ricerca su alcune manifestazioni cilentane, Il Postiglione nn. 27-31, giugno 2018), mi occupavo di un noi condiviso, magari precario, legato al momento, comunque indirizzato alla ricerca dello stare insieme, in quanto, proprio in contatto con gli altri, può dare il meglio di sé e costruire rapporti. Sono le relazioni dunque a configurarci, a far convivere le differenze. Il resto porta a chiusure, egemonie, razze, concetti di anti-relazione, atteggiamento contrario allo scambio.

L’antropologo Maurizio Bettini, ricostruendo paradigmi culturali a partire dalla classicità, a proposito di chiusure identitarie che affondano nella tradizione e quindi nel passato, afferma che nessuno ha mai visto la propria tradizione, né la propria identità o la propria cultura, ma tutti abbiamo visto delle “radici”. (M. Bettini, Hai sbagliato foresta. Il furore dell’identità, Il Mulino, 2020)

Utilizzando la metafora delle radici, egli evoca una serie di elementi, che finiscono per costituire la base di ideologie esclusiviste. Esiste però la debolezza di quel concetto perché l’immagine delle radici è che la tradizione necessita di essere tenuta viva di generazione in generazione, subendo anche delle modifiche, dovute ai cambiamenti storici e sociali e alle scelte che gli individui possono fare.

Bettini sostituisce la metafora delle radici con quella del fiume, del “tutto scorre”, l’identità in divenire che porta la mescolanza e l’intorbidamento. Ecco dunque recuperato il senso di un’identità che non può mai essere statica e confinata alla conservazione dell’esistente. L’identità come cambiamento si sviluppa se ci sono altre identità con cui entrare in relazione.

E se la nuova identità, che nel territorio possiamo definire cilentanità, fosse ripensata in questa accezione, ovvero considerando il noi soggettivo?

Questo è il motivo che mi fa compiere un passo avanti affrontando nuove e più innovative ricerche, guardando l’attualità di approcci che risultano meglio contestualizzati e colti senza eccessive nostalgie del passato.

Intraprendere e realizzare uno sviluppo sostenibile è possibile quando l’uomo non si abbandona al fatalismo e alla rassegnazione, ma crea ed opera non solo per se stesso ma soprattutto per l’affermazione della sua comunità.

La società cilentana va evidenziata attraverso la storia, le origini, lo sviluppo e il riscatto del territorio; la cultura, la religiosità, le tradizioni popolari, i miti e le credenze; l’identità, la cilentanità; lo sviluppo territoriale tra tradizione e modernità.

Queste sono le azioni che dovrebbero compiere i cilentani, evitando di attendere lo scorrere degli eventi: essi sono soggetti e non più individui gettati nella comunità senza meta e senza alcun futuro. I cilentani/soggetti devono trovare idee e nuove consapevolezze, devono agire ed operare per poter affermare la loro vita in questa terra ricca di storia e bellezza, fascino e cultura.

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