“L’obbligo del velo per coprire corpo e mente, ora basta”. Il grido per la libertà di tre iraniani in Italia
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E’ trascorso un mese dall’inizio delle proteste in Iran scatenatesi dopo la morte di Mahsa Amini, 22enne Curda che si trovata a Teheran con i familiari quando è stata arrestata dalla Polizia morale con l’accusa di indossare male l’hijab.
Dal 2005, infatti, in Iran è stato istituito uno speciale corpo di Polizia, appunto “morale”, con il compito di arrestare le persone che violano il codice di abbigliamento imposto dalla legge. Le donne sono obbligate a coprirsi il capo con un velo (hijab) e a vestirsi con un abbigliamento che non evidenzi la figura corporea. Il codice d’abbigliamento in Iran è stato introdotto nel 1979 alla fine della Rivoluzione islamica iraniana: fu allora che l’hijab divenne un “simbolo politico della resistenza”. Ricordiamo che in Iran vige la legge islamica Sharia, per cui esisterebbero un complesso di regole di vita e di comportamento dettate da Dio per la condotta morale, religiosa e giuridica dei suoi fedeli. Sottolineiamo, poi, che alcune delle pratiche classiche della Sharia sono accusate da studiosi dell’argomento di gravi violazioni dei diritti umani fondamentali, dell’uguaglianza di genere e della libertà di espressione. Lo scorso 15 agosto, infine, è stata introdotta dal Governo iraniano un’ulteriore restrizione riguardo l’uso del velo.
La morte di Mahsa Amini ha, dunque, scatenato una rivoluzione: la voglia da parte del popolo di riprendersi la libertà che gli è stata negata con leggi restrittive. Mahsa è morta per una ciocca di capelli che le usciva dall’hijab. Le donne e gli uomini sono in piazza per ribellarsi alle “pattuglie della morte”, stanno chiedendo l’abolizione di questo Corpo di Polizia e la rivendicazione dei propri diritti umani.
Di quanto sta accadendo in Iran ne abbiamo parlato con tre giovani iraniani che vivono in Italia: due ragazze, studentesse, trasferitesi circa 5 anni fa ed un ragazzo, che lavora come artista, trasferitosi 10 anni fa. Per motivi di privacy ci riferiremo a loro con nomi di fantasia e li chiameremo Farah, Aisha e Nadir.
“I nostri familiari vivono nel Centro-Sud – raccontano -. La nostra è sempre stata una città tranquilla, ora, però, i sentimenti si sono intensificati. Ci sono proteste ogni giorno, non solo a Teheran ma in tutto lo Stato. Ci sono state rivolte negli ultimi giorni anche a Sanandaj, che è ad Ovest, e nelle zone di confine con Afghanistan e Kurdistan, ad esempio. Le proteste sono contro la politica oppressiva che c’è in Iran, è un mix tra questione politica e religiosa: in realtà l’Islam non costringe le donne ad indossare il velo. Inizialmente la questione, e facciamo riferimento in questo caso a Mahsa Amini, era religiosa, ma di una versione di religione distorta dal Governo tramite una legge imposta. La Polizia morale è intervenuta perché la ragazza era ‘mal velata’, il Governo ha ammazzato Mahsa e cerca ad ogni costo di nascondere l’evidenza. Così è nata la rivoluzione che è in atto in Iran e Mahsa è il simbolo del coraggio che tutti noi stiamo mostrando in suo nome. Non vogliamo l’obbligo del velo: l’hijab è semplicemente un oggetto di controllo, prima degli anni ‘70 l’Iran era più libero, si viveva in tranquillità”.
Entrambe le ragazze sono d’accordo nel dire che il velo per le donne, che non credono in questo “simbolo”, è una costrizione.
“In passato non c’erano internet, i media e tutti i mezzi di comunicazione che abbiamo a disposizione oggi – affermano – dunque si credeva a tutto ciò che il Governo dava per legge. Oggi le persone sono stanche dell’oppressione e l’uccisione di Mahsa Amini è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Pian piano si è avuta la possibilità di comunicare con il mondo esterno e si è capito che l’hijab non era un obbligo religioso. Le ragazze vengono costrette sin dall’adolescenza ad indossare il velo”.
“L’hijab – racconta Aisha – per me non ha un significato, è soltanto una regola che mi è stata imposta da quando sono nata”. Per Farah, invece, rappresenta “una costrizione, un lavaggio di mente per spingere le persone a rispettare ciò che viene imposto. Non copre soltanto visivamente il corpo, serve a chiudere la mente: hijab è soltanto la parola che racchiude un significato più profondo di oppressione”.
Oltre al velo ci sono ulteriori obblighi e alcune azioni che per noi sembrano scontate in Iran sono vietate. “Le donne in privato possono fare tutto – racconta Nadir -. E’ in pubblico che la situazione cambia: non possono ballare, non possono cantare sole, possono solo suonare gli strumenti e se accompagnano l’uomo nel canto devono farlo con un tono di voce bassa. Non ci si può baciare in pubblico, non si può camminare in strada tenendosi per mano, le ragazze non sposate che vogliono viaggiare devono essere autorizzate dal padre. Le scuole, poi, sono separate in maschili e femminili, soltanto nelle università possono accedervi tutti insieme”.
“Quando sono venuta in Italia, cinque anni fa – spiega Farah – la situazione era la stessa con la differenza che le persone ‘tolleravano’ ciò che veniva imposto dal Governo. Durante tutti questi anni gli iraniani hanno sopportato un susseguirsi di episodi orribili e il fatto eclatante che una ragazza di 22 anni sia stata arrestata dalla Polizia morale, e successivamente ammazzata, è stata la dimostrazione che la realtà dell’Iran è tragica, difficile. Abbiamo avuto la dimostrazione che in passato la verità è stata nascosta dal Governo. Le persone vogliono che la verità venga a galla e che venga visto dal resto del mondo il modo in cui il popolo iraniano è costretto a vivere. Bisogna cambiare il sistema. Sono orgogliosa di ciò che sta accadendo, allo stesso tempo sono molto preoccupata; telefono ogni giorno ai miei genitori per assicurarmi che stiano bene. A Sanandaj la situazione è diventata preoccupante, i militari attaccano i cittadini, hanno invaso le case per prendere le donne che vi abitano all’interno. E’ difficile per me affrontare notizie del genere, è totalmente illegale attaccare le case dei civili”.
Sono tanti gli attivisti e le attiviste impegnati nella battaglia dell’Iran e se dall’interno dello Stato coloro che sono impegnati nella lotta all’oppressione devono stare attenti perché potrebbero andare incontro alla morte, noi, da fuori, possiamo contribuire a far sentire la nostra voce e sostenere il popolo iraniano. “I social media ci stanno aiutando – dice Aisha – con gli hashtag possiamo chiamare in causa attori, giornalisti, attivisti; la nostra voce è stata ascoltata da Angelina Jolie, ad esempio. Coloro che hanno un grande seguito sono i nostri più grandi portavoce. Io stessa sono preoccupata per i miei familiari ma non posso far altro che usare i miei social come aiuto”.
“Gli Stati devono aiutarci, devono rendere propria la nostra voce. Siamo umani, abbiamo gli stessi vostri diritti e non è giusto che ci vengano negati da uno Stato che ci opprime. Purtroppo dell’Iran sono contati sempre i soldi e continuano a valere solo quelli – affermano -. L’hijab è il capro espiatorio, ma la nostra lotta vuole cambiare tanti altri aspetti che limitano la libertà, a partire da alcune leggi, vogliamo riequilibrare i nostri diritti e avere finalmente eguaglianza“.
Alla domanda a Farah se gli uomini vivono l’oppressione allo stesso modo delle donne, ha affermato: “Immagino di sì, ognuna di noi è una loro madre, sorella o familiare, la lotta delle donne è anche degli uomini. Ed è fondamentale non guardare soltanto a quello che accade oggi, pensiamo anche all’altra metà della medaglia: è oppressione anche la costrizione che gli uomini debbano necessariamente fare di tutto per guadagnare soldi e prendersi cura dell’intera famiglia, è un peso morale, sociale. Proprio a causa di questa pressione, mi sento di dire che gli uomini sono molto più introversi nel mostrare le proprie emozioni, intese nel contesto attuale. Le donne dicono ciò che pensano nei confronti del Governo, inneggiano alla libertà, fronteggiano le armi e vengono ammazzate; gli uomini riservano maggiormente questi sentimenti, nonostante partecipino alle proteste, e vengono logorati dall’interno, è una grossa pressione psicologica”.
Tutti e tre sognano di poter tornare, un giorno, anche solo in viaggio, nella loro terra natale: “L’Iran è la nostra casa e abbiamo un bel vissuto lì. Vivere in Italia è diverso, ci sono maggiori libertà, c’è più accesso alla tecnologia ma tornare in Iran resta un sogno, è difficile tornare a casa in queste condizioni, nonostante abbiamo lì i nostri familiari. L’Iran è un Paese ricco, è stato sfruttato per diversi decenni e ha una sua stabilità economica. Il problema è proprio questo: tutti pensano alla ricchezza del Paese, nessuno pensa al suo popolo, a partire dal Governo che conclude affari esteri per mero interesse economico. La situazione attuale in Iran è orribile. Questa rivoluzione ci dovrà dare necessariamente tutti i risultati per i quali abbiamo e stiamo lottando. Vogliamo tornare in Iran e vivere come voi vivete nel vostro luogo di nascita. E’ totalmente differente dal vivere lontano dalle proprie origini, nonostante possano esserci opportunità o comfort maggiori”.
Con una vena comune di amarezza, però, i tre giovani esprimono la volontà di voler tornare a casa soltanto se si otterranno i risultati per i quali i familiari, gli amici e il popolo tutto stanno lottando: “Vogliamo tornare a casa con la consapevolezza di essere liberi“.