Falso sovranismo e vera recessione
di Gianfrancesco Caputo
Alcune compagini politiche hanno fondato i loro recenti successi sull’idea di una nuova sovranità nazionale in contrasto ed in polemica con gli organismi di “governance” europea, a loro dire, troppo invasivi ed elitari, dunque ci si aspetterebbe che tali compagini politiche, coerentemente con quanto affermato e propagandato, siano puntuali attuatrici della difesa dell’unità nazionale ai fini di una rinnovata coscienza nazionale superiore a particolarismi e localismi che sempre hanno caratterizzato le politiche campanilistiche fino al recente passato, anche in funzione di contrasto alle cosiddette “elites” europee a tutela della sovranità nazionale.
Tuttavia l’attuale dibattito politico, si sta concentrando sulla proposta di “regionalismo differenziato o rafforzato” che già nell’analisi etimologica lascia presupporre differenze e non omogeneità, scoprendo cosi il falso sovranismo quale elemento di propaganda elettoral-politica privo di fondamento culturale e ideologico.
In effetti la definizione di autonomia rafforzata o differenziata contiene in sé il rischio di una gestione dei servizi essenziali non uguale in tutti i territori e non equa per tutti i cittadini, infatti un conto è promuovere il più ampio decentramento amministrativo secondo il dettato dell’art.5 della Costituzione per avvicinare le funzioni statali ai cittadini nei vari territori, un conto invece è innescare un vero e proprio meccanismo di sperequazione quando non di separazione.
Il decentramento regionale ha dimostrato nel tempo che il sistema è imperfetto, e qualora si procedesse ad una riforma cosi pervasiva cambiando completamente l’organizzazione, il finanziamento, la struttura della pubblica amministrazione, sarebbe assolutamente necessario mantenere una regia centrale in grado di assicurare i diritti costituzionalmente riconosciuti a tutti i cittadini dello Stato italiano.
Ciò che si sta prospettando oggi non ha nulla a che fare con il corretto decentramento amministrativo, come ha scritto il Prof. Marco Cammelli si tende “non al decentramento per alcuni ma allo sgretolamento per tutti” (M. Cammelli, Il Regionalismo differenziato, rivistailmulino.it, 20/07/2018). Le diversità territoriali, venendo meno il ruolo dello Stato nella gestione solidale a tutela della pari fruizione dei servizi e delle funzioni della pubblica amministrazione, porterebbero ad alimentare inevitabilmente ulteriori emarginazioni per le realtà più deboli.
Il Prof. Giannola scrive: “In estrema sintesi è possibile che senza riforme costituzionali, inizi un percorso verso un sistema confederale nel quale alcune regioni si fanno Stato, cristallizzando – ed è solo l’inizio – diritti di cittadinanza diversi in aree del paese diverse… sempre che di paese si possa continuare a parlare” (www.huffingtonpost.it/stime/sull’autonomia differenziata). Per questo è preoccupante la logica della divisione e dell’affermazione dei principi dell’egoismo. La discussione aperta e libera riguardo alle forme di decentramento da realizzare, quali materie trasferire alle regioni e quali mantenere allo Stato non deve essere repressa e priva di partecipazione da parte delle comunità, confermando però quello che è fondamentale e cioè garantire equamente su tutto il territorio nazionale sanità, assistenza, scuola e istruzione per tutti.
Solo a titolo esemplificativo: se l’istruzione fosse devoluta alle Regioni in conseguenza della paventata riforma in discussione, non si potrebbe mai condividere che la scuola e l’università, per l’importanza che hanno nel sistema formativo dei cittadini, possano perdere la loro valenza nazionale in una frattura tra regioni con programmi diversi e orientamenti diversi. Con la possibilità di avere insegnanti regionali, con contratti regionali e con l’indizione di concorsi locali e conseguenti assunzioni territoriali. Sarebbe la fine di quelle pari opportunità formative che tanto hanno fatto crescere il nostro Paese e si minerebbe la libertà d’insegnamento introducendo anche il principio delle gabbie salariali.
Ma la questione principale da affrontare è il criterio per la ripartizione delle risorse finanziarie, tale criterio sarà quello della compartecipazione o riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale, in una quantificazione tale da consentire alla Regione di finanziare integralmente le funzioni pubbliche ad essa attribuite.
Il parametro di riferimento, sarà quindi quello della spesa storica sostenuta dallo Stato nella regione, riferita alle funzioni trasferite o assegnate. Tale parametro, sarà oggetto di progressivo superamento a beneficio dei fabbisogni standard, da definire entro un anno dall’approvazione della riforma e ad ogni modo misurato in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali.
È evidente il rischio di incorrere in una forte disparità già purtroppo esistente e grave nel territorio nazionale, tra Regioni del nord, storicamente più ricco e con gettito fiscale maggiore, e Regioni del centro-sud Italia. Tutto ciò farebbe venir meno proprio i concetti di unità dello Stato e di eguale tutela per tutti i cittadini, che fino ad oggi, hanno rappresentato un livello generale di benessere. Diversità quindi che si accentuerebbero sia per il venir meno della garanzia dello Stato sia per il fatto che alcuni cittadini sarebbero più tutelati rispetto ad altri, per il solo fatto di abitare in una regione più ricca. Su questo punto il Prof. Viesti scrive : “L’enfasi sul residuo fiscale, piuttosto nasconde che la spesa pubblica pro-capite (totale, dello Stato, delle regioni, e degli Enti locali) non è uguale in tutte le regioni… La differenza fra Sud e Centro-nord deriva da una spesa pensionistica molto minore… ma deriva anche da una minore spesa in molti importanti servizi… Tutti i dati disponibili indicano che i cittadini delle regioni più deboli godono di un minore livello di servizi pubblici, in quantità e qualità, rispetto agli altri italiani, particolarmente nella sanità e nell’assistenza” (Gianfranco Viesti, Verso la secessione dei ricchi? Editore Laterza).
Una esplicita violazione dei principi di uguaglianza previsti dalla nostra Costituzione. Infatti anche la Corte costituzionale ha più volte denunciato che nessun Governo, dal 2001, ha trovato il tempo per definire i c.d. LEP, i livelli essenziali delle prestazioni sociali e civili, unico modo per mantenere quella garanzia di uguaglianza di trattamento per tutti i cittadini italiani, ovunque risiedano. Altro “vulnus” è la mancanza di ruolo del Parlamento, che dovrebbe avere il solo compito di ratificare o meno l’impianto della riforma, senza poter minimamente intervenire. Bisogna, invece, che il Parlamento pretenda di discutere e soprattutto di emendare un eventuale testo.
È essenziale creare un’opinione pubblica consapevole riguardo questa riforma che potrebbe trasformare l’Italia in qualcosa di diverso da ciò che fino ad ora abbiamo conosciuto e apprezzato, cosa che non è avvenuta né sta avvenendo. Scrive Eugenio Mazzarella: “È difficile immaginare regionalizzati, oltre che i diritti di cittadinanza, materie come energia, ambiente, infrastrutture, sicurezza, scuola, università, sanità. Per dirne solo alcune. Ma ce n’è una di materie che non può essere sicuramente regionalizzata, se si vuole far salva l’unità del Paese. E questa è la coscienza nazionale” (Il Mattino, La Coscienza nazionale non può essere regionalizzata, 22.2.2019).
Gianfrancesco Caputo